Corriere della Sera, 2 gennaio 2019
A Pompei riapre la Schola dei gladiatori
«Al posto di questa sorta di club dove si custodivano le armi dei gladiatori – scrisse traumatizzato Gimmo Cuomo sul «Corriere del Mezzogiorno» – c’è ora solo un ammasso di macerie che evoca le immagini di un sisma, di un bombardamento, dell’abbattimento con le ruspe di un manufatto abusivo o un villino palestinese nella Striscia di Gaza».
E così appariva davvero, dopo il collasso del novembre 2010, la Schola Armaturarum di Pompei: il simbolo d’una sconfitta storica. La metafora, denunciarono i giornali stranieri a cominciare dal «New York Times», dell’incapacità del nostro Paese di custodire con cura e amore i tesori ricevuti dal passato. Non mancarono le citazioni di Alphonse de Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle? Che cosa direbbero questi maestri, questi amatori delle arti belle, se bucando lo spessore delle lave che li hanno inghiottiti potessero tornare alla luce e vedere i loro capolavori affidati a mani così…».
E ci fu chi, come Jennifer Kester su «Traveller», si spinse a scrivere: «Se avete un viaggio a Pompei nella vostra lista, fareste meglio a prenotare ora il vostro biglietto per l’Italia». Titolo: «Andate ora a visitare Pompei prima che crolli». Non bastasse, saltò fuori che l’edificio, nella mappatura delle aree a rischio dell’antica città sepolta, era «gialla»: basso rischio. «Se è per questo», sospirò Pier Vittorio Guzzo, sovrintendente fino a pochi mesi prima, «nel ’97 era bianca. A rischio nullo».
«Una vergogna per l’Italia», tuonò Giorgio Napolitano chiedendo «spiegazioni immediate e senza ipocrisie». Una vergogna scaricata, a ragione o a torto, addosso al ministro dell’epoca Sandro Bondi, che se la prese con la cattiva sorte e forse era colpevole più che altro d’avere scelto (o di essersi fatto imporre) come commissario l’ex funzionario dell’Acea Marcello Fiori, reo d’aver buttato 102.963 euro, per fare un solo esempio, anche nel censimento (non la cattura: il censimento) di 55 cani randagi. Una vergogna rimasta per anni tra i sensi di colpa collettivi di chi ama il nostro patrimonio.
Incubo finito: dopo la delicata rimozione delle macerie appesantite dal carico pauroso della «copertura piana in cemento armato» voluta a fine guerra da Amedeo Maiuri (un errore: allora si lavorava così) in seguito al bombardamento alleato alla fine di agosto del ’43, dopo un paziente recupero di ogni pezzetto di affresco non polverizzato e dopo un minuzioso lavoro di ricostruzione, la «Schola» sta per essere riaperta. Certo, gli affreschi trovati all’epoca degli scavi con cui Vittorio Spinazzola nel 1915-16 riportò alla luce l’antica casa dei gladiatori, una sorta di sede di rappresentanza di un’associazione militare, sono andati perduti. Prima sotto le bombe alleate, poi nel crollo del novembre 2010 attribuito allo «smottamento del terrapieno a ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge». Per non dire dei danni ulteriori aggiunti da leggi e leggine che almeno in questi casi avrebbero dovuto tener conto dell’errore enorme a lasciar lì sotto la plastica per quattro anni, di perizia in perizia, quella massa di macerie dalle quali si sarebbe probabilmente potuto recuperare molto di più.
Detto questo, non tutto è andato perduto. Anzi: Massimo Osanna, l’archeologo che da quattro anni guida la soprintendenza di Pompei, sottolinea che «quasi a voler rendere giustizia dell’autenticità della materia antica» il crollo di otto anni fa interessò «in maniera preponderante la ricostruzione moderna di Maiuri e in misura minore le pitture originali». Via: la Schola Armaturarum sarà aperta a partire da domani, tutti i giovedì, alle visite guidate.
Di più: la riapertura avviene nella scia della scoperta di nuove domus, nuovi mosaici come «il Mito di Orione» e nuovi affreschi come quello subito famoso «Leda e il cigno». Ma soprattutto nella scia del ritrovamento due anni fa, quasi accanto alla sede della soprintendenza, di una tomba che, secondo il direttore, «probabilmente apparteneva al personaggio più importante della colonia». Gnaeus Allieus Nigidius Maius.
Contenevano, le rovine, «la scoperta più importante degli ultimi decenni fatta agli scavi archeologici di Pompei». Cioè un’iscrizione lunghissima, quattro metri su sette righe, che racconta la vita dell’uomo «a partire da quando indossò la sua “toga virile”, quindi raggiunse la maggiore età, e diede un grande banchetto per il popolo pompeiano, per il quale furono allestiti 456 triclini». Per capirci: 6.840 ospiti. Con le tavole coperte di ogni ben di Dio.
Uomo generoso, prosegue l’iscrizione, «poiché la sua munificenza era coincisa con una carestia», per quattro anni si fece carico di aiutare la gente del posto e «la cura per i suoi concittadini fu superiore a quella per il suo stesso patrimonio» e arrivò a comprare a caro prezzo frumento rivenduto sottocosto e a distribuire «alla cittadinanza individualmente attraverso i suoi amici una quantità di pane cotto equivalente a tre vittoriati». Una gran somma, evidentemente...
La parte più interessante di queste memorie di vita, però, è quella dedicata allo splendore con cui «offrì uno spettacolo gladiatorio di tale grandiosità e magnificenza che (...) poteva esser confrontato con qualsiasi spettacolo di Roma poiché parteciparono 416 gladiatori». E non fu neppure un caso isolato perché organizzò in altre «due occasioni grandi spettacoli senza onere alcuno per la comunità».
Andavano matti, gli abitanti di Pompei, per quei giochi anfiteatrali. La parte più impressionante, scrive Osanna in un saggio dedicato alla tomba, doveva esser «la venatio vera e propria, il confronto tra uomini e animali, dove i venatores intervenivano vestiti di semplice tunica e armati solo di lancia. Tra le fiere si annoveravano felini (tigri, leoni, leopardi) orsi e financo elefanti…».
Certo è che i combattimenti eccitavano la gente oltre ogni limite. Al punto che nel 59 d.C., ricorda la stessa iscrizione, scoppiò una rissa tra i tifosi di Pompei e quelli di Nocera, passata alla storia. Scriverà Tacito che «come avviene di solito nei piccoli centri, si cominciò con dei lazzi alquanto pesanti, poi volarono pietre, e si finì col giungere alle armi. La plebe di Pompei ebbe la meglio. Molti nocerini furono portati a casa mutilati nel corpo; non pochi piangevano la morte di un figlio o di un padre». Informato dei fatti, il Senato decise per una punizione esemplare. E vietò a Pompei le amatissime sfide tra i gladiatori per dieci lunghi ann i. Altro che i Daspo negli stadi nostrani…