Corriere della Sera, 31 dicembre 2018
Intervista a Emanuele Severino: «Io eretico? No, solo coerente»
Professor Emanuele Severino, “filosofo eretico”, ci consenta la semplificazione per poterle porre la prima domanda: cosa si prova a subire una condanna dal Sant’Uffizio, come accadde a Galileo Galilei? Tra l’altro, proprio mentre gli studenti universitari, alla Cattolica di Milano, dove lei insegnava, alzavano le barricate?
«Cercavo di evitare che il mio discorso filosofico venisse confuso con le manifestazioni studentesche, anche perché Mario Capanna, il loro leader, aveva chiesto di laurearsi con me. Le mie idee maturavano da tempo, fin da quando, in lavori precedenti, avevo sostenuto la possibilità che il Cristianesimo fosse un errore. Tutto precipitò nel ’64, quando scrissi Ritornare a Parmenide, libro dal quale appariva evidente non solo che il Cristianesimo potesse essere follia, ma che lo era certamente».
Tesi sostenuta da un giovane studioso educato in ambienti cattolici.
«Due zii gesuiti e due zie suore in Sicilia, scuole dai gesuiti a Brescia, università a Pavia nel collegio cattolico Borromeo e un meraviglioso rapporto con monsignor Francesco Olgiati, numero due della Cattolica dopo padre Gemelli. Olgiati mi difese quando il Vaticano osteggiò i miei lavori precedenti limitandosi a suggerire: “Figliolo, non puoi sostituire le parole fede e Cristianesimo con altre più generiche?”. Tenni duro: “Padre, sto proprio parlando di fede e Cristianesimo, come faccio a cambiarle?”. Si impegnò personalmente per la pubblicazione e, per fortuna, era già morto quando scoppiò il “caso Parmenide”».
Venne convocato dal Sant’Uffizio. E messo alla berlina?
«Nonostante la procedura fosse la stessa subita da Galileo, sapevo che non mi avrebbero mandato al rogo. Anzi, mi ricevettero offrendomi tè e pasticcini. Non potevano far altro che condannarmi e il mio caso sarebbe finito negli Acta Apostolica, ma non mi sottrassi. Però uno dei giudici, il professor Enrico Nicoletti, abbandonò l’abito talare dopo aver approfondito le mie idee. Come professore ordinario non potevano licenziarmi, allora mi proposero di percepire lo stipendio senza insegnare. Non accettai, perché sentivo forte la responsabilità nei confronti dei miei allievi. Passai all’università di Venezia, li portai con me e la vita tornò a scorrere».
Mi spiega, nel modo più semplice possibile, in cosa consiste la sua filosofia?
«Noi siamo Re che si credono Mendicanti. Non metto in discussione solo il Cristianesimo, ma tutta la civiltà occidentale e la sua filosofia, secondo la quale noi veniamo dal nulla e finiamo nel nulla. Questa è l’essenza del nichilismo. No, ognuno di noi è un dio con la convinzione di essere contingenza, ombra di un sogno. L’uomo è una povera cosa: lo dice Pindaro, lo dicono Shakespeare e Leopardi, è il clima creato da Bertolt Brecht. In realtà siamo l’eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio. Siamo destinati a una Gioia più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Il mendicante è il nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose reali sono questo mondo, l’Europa, l’Italia, i rapporti economici, giuridici, sessuali. Mentre il fondo dell’uomo consiste nella sua permanenza assoluta. Con la morte noi superiamo lo stato di mendicità: la morte ci consente di oltrepassare il senso del nulla».
Lei è ateo?
«Anche per l’ateo le cose escono dal nulla e vanno nel nulla: l’amico di dio è un folle che crede di aver bisogno di un padrone, di un signore, di un creatore; l’ateo è un folle che crede di non averne bisogno, ma appartengono entrambi alla stessa anima. Il mio pensiero è al di là della follia».
Come l’ha spiegato alla sua famiglia cattolica, ai suoi zii?
«Gli zii preti e suore erano già morti. Quando negli anni 50 andai a trovare zio Sebastiano, che in Sicilia era un’eminenza, era già molto vecchio. Bussai al collegio dei gesuiti di Messina e mi accompagnarono da lui, su in terrazza. Riparato sotto un ombrellone, scrutava il mare. Mi abbracciò, mi chiese se stavamo tutti bene, poi cominciò a inveire contro Garibaldi. Mio padre era un ufficiale di carriera, ferito alla gola nella Prima guerra mondiale. Come mia madre, era cattolico ma non bigotto. Erano preoccupati che la mia coerenza mi rendesse dura la vita. Avevano già fatto la terribile esperienza di perdere un figlio. Mio fratello maggiore era studente alla Normale di Pisa quando lo costrinsero ad arruolarsi. Di giorno sparava, la notte preparava l’esame di Storia della letteratura italiana. Era sul fronte francese quando la morte se lo portò via. Ragazzo di ingegno non comune, ammirava Giovanni Gentile nonostante il loro primo incontro fosse stato traumatico. Zio Sebastiano vantava un’amicizia con il filosofo e probabilmente spese una parola per facilitargli l’accesso alla Scuola. Alla Normale, gli esami d’ammissione si tenevano in pubblico. Di fronte a un candidato impreparato, Gentile si alzò e disse: “È forse Severino, il raccomandato dai preti? Bocciatelo!”. Mio fratello era in aula: “No, Severino sono io”. Il filosofo tornò a sedere e mio fratello passò brillantemente l’esame nonostante lo avessero preso di mira».
Non le resero la vita dura, ma non ebbe neppure importanti cariche, o sbaglio?
«Non le ho mai volute: le presidenze portano via tempo. Quando ho accettato di tenere conferenze in giro per il mondo, a L’Avana, Teheran, Mosca, l’ho fatto per fare una gita con mia moglie. Quando seppe della mia partenza per Cuba, don Verzé mise in subbuglio tutto il San Raffaele perché trovassero una bottiglia speciale di vino da portare al suo amico Fidel Castro. A Teheran, davanti agli ayatollah, sostenni che il capitalismo e la tecnologia si sarebbero mangiati anche l’Islam. Non so se il traduttore abbia riportato pari pari il mio pensiero, comunque alla fine vennero a complimentarsi. Per il resto, la mia vita è trascorsa pensando, scrivendo e facendo il marito di mia moglie, di cui sono sempre stato molto innamorato. Mi consola che anche Socrate non si sia mosso da Atene, né Kant da Königsberg».
Però Hegel vide Napoleone passare sotto la finestra di casa sua. E lei, chi ha visto?
«Le truppe tedesche: entrare e uscire da Brescia. Dopo l’8 settembre arrivarono baldanzosi. Sul viale qui davanti, oltre a loro non c’era un’anima, ma il comandante si sbracciò per salutare. Noi sfollammo sui Ronchi, le colline poco distanti dalla città. Un anno e mezzo dopo, da Verona giunse la colonna americana con i carri armati e i tedeschi vennero fatti letteralmente a pezzi. Ai Ronchi salì un soldato tedesco impaurito, venne verso di me e mi chiese dove poteva salvarsi. “Se vai su, tra un chilometro trovi i partigiani”. Mi gettò tra le braccia il suo mitra e si mise a correre finché scomparve. Finita la guerra volevo lasciarmi velocemente alle spalle quella tragedia e così feci l’esame per saltare un anno di liceo. Tutto il dolore, tutta la disperazione si placarono un giorno, in bicicletta. Con gli amici avevamo conosciuto una ragazza, la più bella del liceo Arnaldo. Una sera andammo a chiamarla per fare un giro. Lei non aveva la bicicletta e dovette salire su una delle nostre. Scelse la mia. Il mio viso affondò nei suoi capelli, ne sentii il profumo. A 22 anni io e Esterina ci sposammo».
Una vita familiare felice, con due figli. Però ogni volta che scrive un libro rompe con qualcosa: il Cristianesimo, il capitalismo, la tecnologia…
«La radice è sempre la stessa, non è che vada a colpire in ordine sparso. La forma più rigorosa di follia oggi è la tecnica: viviamo il tempo del passaggio dalla tradizione a questo nuovo dio. La globalizzazione autentica non è quella economica, è quella tecnica. Commettiamo l’errore di credere che capitalismo e tecnica siano la stessa cosa: no, hanno scopi diversi. Il capitalismo ambisce all’incremento infinito del profitto privato, la tecnica all’incremento infinito della capacità di realizzare scopi, ovvero della potenza. La tecnica ucciderà la democrazia, a partire dagli Stati più deboli come l’Italia. Tale processo poi investirà anche Usa, Russia e Cina. Gli Stati Uniti a un certo punto prevarranno, ma non in quanto nazione, bensì come gestori primari della potenza tecnologica. Ora fatichiamo a comprenderlo, perché ci troviamo in un tempo intermedio. Siamo come il trapezista che ha lasciato un attrezzo (la tradizione) e non si è ancora aggrappato all’altro (la tecnologia, il nuovo dio). Siamo sospesi nel vuoto e ci sembra di essere sperduti».
Ma è una previsione orwelliana!
«Prima o poi si riuscirà ad afferrare l’altro trapezio. E comunque anche la tecnologia è destinata a tramontare, affinché si compia il destino dell’uomo».