la Repubblica, 31 dicembre 2018
Alla ricerca dell’ultimo segreto di J.D. Salinger
Hapworth 16, 1924 è l’ultima pubblicazione di Salinger. È un racconto controverso, oggetto di culto e derisione; l’hanno letto in pochi, meno di coloro che hanno chiesto di pubblicarlo in volume. Occupa quasi tutto il New Yorker del 19 giugno 1965. Insieme a Seymour. Introduzione è la sua unica opera a essere accettata senza riserve. Per ottanta pagine Seymour Glass, anni sette, nel purgatorio dell’infermeria di un campeggio, «specula su Dio», chiosa il Time, «sulla reincarnazione, su Proust, Balzac, sul baseball e sulle grazie della moglie del direttore del campeggio (“un commovente patrimonio di gambe e caviglie perfette, seni sfacciati, e un sedere grazioso e sodo”)». Seymour stesso lo definisce «una lunghissima e noiosa lettera, piena fino all’orlo di un mare di parole e pensieri artificiosi».
L’accoglienza è un silenzio che trasuda sconcerto. Le fragili pagine del New Yorker devono essere sembrate interminabili ai lettori: l’autore – isolato da quasi quindici anni nel «bunker» di Cornish – pretende una conoscenza impeccabile delle sue opere precedenti. Seymour è Salinger, solo che non si è sparato un colpo alla tempia.
Nel 1996 cominciarono a circolare voci sul ritorno di Salinger in libreria, dopo trent’anni. La Orchises Press, un minuscolo editore di Alexandria, Virginia, pubblicherà Hapworth. È una storia bella e triste, di amore e squallore, Salinger ne ricaverebbe un racconto magnifico. Un giorno Roger Lathbury, professore di letteratura inglese ed editore per passione, scrive a Salinger. Sulla busta riporta solo: «A J.D. Salinger, Cornish, New Hampshire». È il 1988, la Orchises Press vanta un catalogo di una cinquantina di titoli e una distribuzione precaria. Non passano due settimane che arriva un biglietto firmato JDS: «Sto valutando la sua proposta».
Deve averci pensato parecchio Salinger perché il segnale successivo arriva dopo otto anni, tramite la Harold Ober Associates, la sua agenzia letteraria. Richiedono il catalogo e i libri più rappresentativi. Ancora qualche mese e sempre dalla Ober giunge una lettera che inizia così: «È bene che si sieda prima di andare avanti nella lettura». Salinger accettava l’offerta di pubblicare con la Orchises a patto che venissero rispettate alcune condizioni: la copertina doveva essere in buckram blu con titolo e autore impressi solo sul dorso, l’interlinea del testo abbondante («in modo che Seymour possa respirare»); che fossero stampate poche migliaia di copie, che – tassativo – il prezzo fosse calmierato per evitare una diffusione eccessiva; e, naturalmente, che la pubblicità fosse ridotta a poco più di zero. A questa segue una telefonata di Salinger in cui chiedeva di incontrarsi a pranzo presso la National Gallery of Art di Washington.
Cosa deve aver pensato Lathbury quando si è seduto al tavolo con questo settantasettenne arzillo, giusto un po’ sordo, che a un certo punto gli dice di chiamarlo Jerry? Salinger previene le sue ovvie preoccupazioni: non vuole alcun anticipo, anzi si spende affinché il piccolo editore possa ricavare un margine soddisfacente. I due si accordano su tutto, si stabilisce una bella complicità, che prosegue nei successivi scambi.
Poi il disastro: un giornalista del Washington Business Journal si accorge del libro su Amazon (che nel 1997 è agli inizi) e chiama Lathbury. «Mi ha chiesto come avevo convinto Salinger, quante copie avrei stampato, cose così». Qualcuno al Washington Post nota l’articolo e boom, tutto, compreso l’incontro con Salinger, finisce in prima pagina. Il gran recluso sta per tornare. Gli ordini schizzano alle stelle, le catene librarie alzano il prezzo: tutti vogliono Hapworth; tutti tranne Salinger, che ancora una volta si sente tradito da un editore.
Il libro non esiste ancora ma piovono stroncature. Michiko Kakutani è lapidaria: «Un racconto acerbo, implausibile e, triste a dirsi, completamente privo di fascino». Accusa Salinger di «regalare ai suoi lettori una parodia di quello che crede si aspettino da lui».
Lathbury si assume tutte le colpe; Salinger – comprensibilmente furioso – non dà più segnali, e scadono i termini per la pubblicazione.
Qualcuno sostiene che queste stroncature abbiano esacerbato il suo già non indifferente distacco dal mondo: non è così. Sappiamo che aveva in mente di pubblicare due romanzi già conclusi e che nei mesi seguenti ha sottoposto almeno un altro racconto al New Yorker;sappiamo che non ha mai smesso di scrivere, ma che a un certo punto ha rinunciato a pubblicare da vivo.
Cosa ci ha lasciato Salinger? I pochi che sono riusciti a entrare nel suo studio descrivono una scena simile a quella di Beautiful Mind: migliaia di fogli, schemi e appunti che pendono dalle pareti, e al centro un genio avvolto dalla sua stessa opera, confuso con essa.
Nel 2008, per non correre rischi, Salinger ha dato vita a un trust a cui ha intestato i diritti di tutte le sue opere. Anche in questo caso poche regole, chiarissime: mai un film sul Giovane Holden, mai paratesti e immagini sulle copertine, e il fantomatico cronoprogramma delle uscite.
Quanti manoscritti ci sono nella cassaforte? La figlia Margaret ci dà qualche indizio: parecchi, e predisposti con cura; i documenti contrassegnati in rosso «possono essere pubblicati così come sono dopo la sua morte»; quelli con un distintivo verde hanno bisogno di un po’ di editing.
Secondo i beninformati le uscite inizieranno entro il 2020 e il primo volume raccoglierà tutte le storie della famiglia Glass, con vari inediti, soprattutto su Seymour (compreso un racconto sulla sua vita dopo la morte). Seguiranno in ordine non noto: un libro sulla famiglia Caulfield; un manuale di ved?nta; una storia d’amore piuttosto autobiografica ambientata durante la Seconda guerra mondiale; una novella narrata in prima persona da un agente del controspionaggio (anche qui biografia a gogo).
Un’altra fonte – più scoraggiante – inchioda al 2050 l’inizio delle pubblicazioni. La verità è che Salinger continua a prenderci per la gola, lui che già ai tempi di Holden aveva sentenziato: «Si vive in una pace meravigliosa senza pubblicare. Mi piace scrivere, è la cosa che amo di più, ma mi piace scrivere per me stesso, per il mio piacere».