la Repubblica, 31 dicembre 2018
Il comunismo di Fidel sessant’anni dopo
Il regime cubano compie sessant’anni. È nato il 1° gennaio 1959, quando fugge dall’Avana il dittatore Fulgencio Batista, amico dei narcotrafficanti e degli Stati Uniti, e trionfa nell’isola la rivoluzione guidata da Fidel Castro. Ma anche da altri guerriglieri, come Ernesto “Che” Guevara e Camilo Cienfuegos, che, per l’aspetto e la spigliatezza da giovani protagonisti della storia, attiravano la simpatia e sollecitavano l’immaginazione.
Adesso, più di mezzo secolo dopo, quei personaggi sono scomparsi. La loro immagine ha risentito della spietatezza del lungo potere, nel caso di Fidel; o è stata esaltata e affidata al mito nel caso del “Che”, morto nella lotta armata; o è rimasta intatta, esemplare, nel caso di Cienfuegos, vittima di un incidente aereo poco dopo la vittoria.
Il regime sente il peso degli anni e dell’inevitabile spirito di conservazione di chi è sulla difensiva. E si sente isolato. Non sa come aggiornare il suo comunismo ed è quindi condannato a un immobilismo non salutare in un’età avanzata.
La situazione economica non è incoraggiante, secondo alcuni esperti il livello di vita è fermo o è ritornato a quello del “periodo speciale” degli anni ‘90, quando cessarono gli aiuti dell’Unione Sovietica ma non l’embargo decretato dagli Stati Uniti, ancora in vigore.
La vicinanza ostile della superpotenza nordamericana ha sottoposto l’isola a dure prove, ma ha anche stimolato l’orgoglio cubano, sconfinato spesso nella provocazione. E ha influenzato, se non proprio dettato, scelte politiche e ideologiche, e conseguenti alleanze, che hanno caratterizzato il comunismo versione caraibica. Barack Obama ha ristabilito i rapporti diplomatici e con la sua visita all’Avana nel 2016 ha interrotto una guerra fredda durata più di mezzo secolo (senza contare che è stato il primo presidente americano a mettere piede a Cuba dopo 88 anni). Donald Trump ha interrotto il processo di distensione avviato dal predecessore confermando quel che Vicki Huddleston, un tempo diplomatica americana all’Avana, e tanti altri esperti sostengono. Decenni di sanzioni non hanno convinto i dirigenti cubani a rinunciare al loro comunismo né ad applicare le libertà democratiche. È dunque attraverso gesti distensivi come quelli di Obama che si può favorire mutamenti politici sostanziali a Cuba. Trump è ritornato ai vecchi metodi, quasi da guerra fredda, e il regime dell’Avana ha rallentato le riforme. Prova ne è il testo della nuova Costituzione.
Ero all’Avana, sulla tribuna davanti alla quale sfilavano i reparti che avevano annientato lo sbarco dei controrivoluzionari addestrati dalla Cia, nella Baia dei Porci (invasión de Playa Girón). Era la primavera del 1961 e si celebrava anche la proclamazione della Repubblica socialista. Cuba non mancava di fascino. Nei casinò ancora aperti, con i croupiers vestiti come miliziani, si incontravano gli ultimi yankees insabbiati che stavano per andarsene. Il governo aveva nazionalizzato imprese nordamericane, in particolare quelle petrolifere, e i rapporti tra L’Avana e Washington non erano migliorati dopo il fallito sbarco dei controrivoluzionari. Fidel aveva fatto un processo pubblico, nello stadio della capitale, ai prigionieri catturati nella Baia dei Porci. E aveva proposto di scambiarli con dei trattori. L’agricoltura cubana, nazionalizzati i latifondi, ne aveva bisogno. La situazione sull’isola era stimolante, nell’attesa di vedere la vera natura della rivoluzione.
Non lo era già più, stimolante, quattro anni dopo, nel ’65, quando ritornai all’Avana. Il comportamento dittatoriale del regime si era appesantito. La caccia ossessiva agli oppositori, secondo gli stranieri amici della rivoluzione cubana, era spiegabile con la vicinanza del grande nemico nordamericano.
Aveva meno giustificazioni la singolare persecuzione degli omosessuali. Gli intellettuali erano sottoposti a una censura severa, che non escludeva il carcere. Le prigioni erano piene di nuovi oppositori, di coloro che pur avendo partecipato alla rivoluzione, negli anni della Sierra Maestra, non avevano poi accettato il comunismo imposto da Fidel. Un comunismo come contropartita, oltre lo zucchero, agli aiuti sovietici? Come opposizione al limitrofo e nemico capitalismo nordamericano? Come un modo di sfuggire all’influenza delle numerose imprese straniere, nazionalizzandole? Oppure un’ideologia abbracciata da Fidel fin da giovane e a lungo nascosta, come lui ha raccontato in modo confuso? I gesuiti, suoi insegnanti, hanno ricordato lo studente che cantava “ Cara al sol”, l’inno franchista. Ma gli episodi di quando era ragazzo non aiutano a ricostruire l’itinerario ideologico di un leader che ha governato tanto a lungo con un’impronta politica.
La sola verità accertata è che il comunismo cubano è sopravvissuto a quello sovietico che l’ha ispirato. Tra i prigionieri c’erano personaggi che avevano ricoperto cariche importanti sulla Sierra Maestra e dopo. Ad esempio Huber Matos, nominato da Fidel comandante militare nella provincia di Camaguey per i suoi meriti durante la guerriglia. Matos si era opposto al ruolo del partito comunista e avrebbe passato vent’anni in carcere. Liberato, avrebbe poi raggiunto gli Stati Uniti dove, in Florida, soprattutto a Miami, c’erano ormai migliaia di esuli cubani. Tanto da formare una seconda Cuba, in cui i nati dopo la rivoluzione sono ormai più numerosi. Quella larga diaspora ha vissuto per decenni nell’estenuante attesa di un ritorno in patria, dopo la caduta del regime castrista. Adesso gli anziani vivono tra nostalgia e frustrazione.
Sessant’anni dopo il regime cubano stenta a riformarsi. Ha allargato lo spazio riservato all’iniziativa privata, ma è avaro nel concedere alcune libertà individuali essenziali. È rivelatore che i giovani siano più interessati a lasciare l’isola che a opporsi al regime.
La nuova Costituzione, tanto attesa, si sta rivelando deludente. Stando alle fonti ufficiali è stata analizzata e discussa in decine di migliaia di assemblee, cui avrebbero partecipato otto milioni di cubani (su undici milioni), ed è stata approvata nei giorni scorsi dall’Assemblea nazionale. A fine febbraio sarà sottoposta a un referendum popolare.
Sul testo originale, redatto da una commissione speciale presieduta da Raúl Castro, non più capo dello Stato, ma ancora alla testa del partito e delle forze armate, si è riversata una valanga di proposte di modifica.Nell’ultima stesura non figura più l’articolo sul «matrimonio egualitario», vale a dire tra persone dello stesso genere, e non «tra un uomo e una donna», come scritto nella Costituzione del 1976 in vigore. L’innovazione era stata suggerita da Mariela Castro, figlia di Raúl, responsabile di un organismo dedito alla promozione di riforme sociali. Delle quali l’introduzione nella magna charta del matrimonio gay era considerata la più importante.
Ad esso si sono opposte le chiese evangeliche, ma anche parte della popolazione con pubbliche manifestazioni. Il nuovo articolo parla di libero matrimonio tra coniugi: e secondo Mariela Castro la formula mantiene la possibilità per tutte le persone di accedere all’istituzione matrimoniale. Sul tema dovrà decidere la nuova legge in materia, il Codice di famiglia, in discussione da più di dieci anni.
Roberto Livi, corrispondente dall’Avana del Manifesto, ha scritto che la difesa del matrimonio egualitario è diventato un forte argomento per i piccoli gruppi d’opposizione. E ha accennato al sospetto che le polemiche suscitate dalla proposta siano destinate a distogliere l’attenzione dai temi politici.
Ad esempio la conferma del partito comunista come partito unico e del controllo statale di tutti i mezzi di informazione.Non è stata accettata l’elezione diretta del presidente della Repubblica o di altri organi regionali e provinciali.
Nel testo della nuova Costituzione è stato ripreso inoltre il riferimento al comunismo che con il socialismo fornisce «la sola garanzia» affinché l’essere umano raggiunga la piena dignità. Lo Stato socialista è confermato come regolatore del mercato e della pianificazione dell’economia, pur convivendo con la proprietà privata.