La Stampa, 31 dicembre 2018
Stéphane Lissner: «L’opera mai stata così in forma. Ma bisogna salvarla dai loggionisti»
Questi spettatori sono una minoranza, ma possono destabilizzare una rappresentazione. Penso in particolare al partito preso e ai comportamenti di certi spettatori (alla Scala li chiamano “loggionisti”) che, nell’anonimato della sala buia, non esitano buando a distruggere il lavoro degli artisti. Facendolo, rovinano anche il piacere al resto del pubblico, complessato, perfino colpevolizzato per aver applaudito [...]. Fischiare all’opera? Al di là dei giudizi morali, la questione è delicata: poiché una sala non manifesta mai la sua disapprovazione con il silenzio, comprendo che, in una certa misura, certuni vogliano protestare costi quel che costi, anche urlando. È una realtà umana, e deplorarlo non serve a niente».
Così parlò Stéphane Lissner, dal 2005 al ’14 sovrintendente della Scala, ora direttore generale dell’Opéra. L’occasione era una conferenza in occasione dei 350 anni dell’Opéra l’anno scorso al Collège de France, una specie di Normale francese, ora diventata anche uno svelto libretto, Pourquoi l’opéra aujourd’hui?, «Perché l’opera oggi» (fra parentesi, è curioso che le più prestigiose istituzioni culturali francesi, dall’Académie alla Comédie-française, dalla Sorbona all’Opéra, risalgano all’Ancien régime: a differenza di quel che si crede, è la Francia il vero Paese conservatore d’Europa, non l’Inghilterra...).
Con l’occasione, come si vede, Lissner si è anche tolto qualche macigno dalle scarpe. Dopo anni dal suo addio a Milano continua a serbare un ricordo non lusinghiero, o magari qualche cicatrice, del loggione scaligero. Il che potrebbe essere anche un riluttante riconoscimento alla sua vitalità: talvolta irragionevole, talaltra ingiusto, spesso francamente capriccioso, resta una «realtà umana» (per alcuni personaggi, più un caso umano), con cui bisogna fare i conti. Infatti il successore di Lissner, Alexander Pereira, gli chiese subito una tregua, ovviamente non concessa.
Per i loggionisti, già celebrati anche nella miglior letteratura milanese, dal Porta ad Arbasino, quasi una consacrazione al contrario, benché «laterale». In queste 60 paginette, in effetti, Lissner racconta una serie di verità sull’opera che, per il fatto di non essere capite nel Paese che l’ha inventata e la sta devastando, insomma il nostro, non cessano per questo di essere tali. Per esempio, che l’opera non è affatto «in crisi», come si sente blaterare da noi. È in crisi in Italia, perché la fanno male. Nel resto del mondo, per nulla, anzi non è mai stata così «global».
Oppure, altra verità, che l’opera o è sovvenzionata o non si fa, anche se non si tratta di sciali ma di investimenti: non solo in cultura, dunque in civiltà, ma proprio anche economici, con «ritorni» importanti sull’indotto e non solo. Infine, verità ancora più evidente, facendo l’opera «bisogna assolutamente rompere con la logica del “magazzino d’antichità”», come lo chiamava Boulez, insomma con il salotto di nonna Speranza spacciato per «tradizione». Esattamente poi la cosa che irritava il loggione della Scala, e siamo da capo.