La Stampa, 31 dicembre 2018
«Ora i capi ultras sono professionisti e laureati»
Il capo ultrà indagato, è un ingegnere e designer; il giovane arrestato è un laureando alla Cattolica in psicologia e criminologia; il leader filo nazista ucciso da un’auto, era padre di due figli e imprenditore in Svizzera. C’è qualcosa che sfugge nella moderna arena dei combattimenti da stadio: dove sono finiti i sottoproletari e i disadattati?
«Vuole sapere una cosa? Nelle Curve ormai sono più i laureati e i professionisti che gli sbandati».
Mirko Perlino, 42 anni, avvocato del foro di Milano, oltre ad assistere Marco Piovella, accusato di essere l’organizzatore degli scontri, è da più di dieci anni il legale della Curva Nord dell’Inter che raduna sigle come quella degli Irriducibili, dei Boys, dei Viking, tutti gruppi che hanno fornito armi e “soldati” alla battaglia di Santo Stefano.
Che razza di mondo è quello degli ultrà, avvocato?
«E’ un mondo con dei codici propri e un forte spirito di appartenenza che scatena grandi dosi di adrenalina e alla fine crea la necessità di supremazia rispetto ai gruppi avversari».
Fino a creare dei “war games” da stadio?
«Errore: fuori dagli stadi. Sta succedendo un po’ in tutta Europa, in Russia in particolare dove ormai le tifoserie si danno appuntamento in campi all’aperto per sfidarsi».
Proprio come a Milano tre sere fa. E dove sono finiti i sottoproletari, gli sbandati che animavano fino a un po’ di anni fa queste guerriglie?
«Ci sono ancora, intendiamoci. Ma sempre meno, non sono la maggioranza. Se andassimo i in una qualunque Curva, potrei indicarle un sacco di insospettabili. Dentro ci trovi anche fior d professionisti, architetti, medici, imprenditori. Gente che ha anche fatturati da 4-5 milioni di euro all’anno…».
Ma cosa spinge giovani laureati, imprenditori e professionisti a confrontarsi sul piano fisico?
«Non so, bisognerebbe chiederlo a loro. Ma credo sia una questione di adrenalina e poi la violenza purtroppo rientra nell’indole umana. I disadattati sono pochi e mi pare un dato allarmante. Il bello è che poi, quando questi ultrà si trovano davanti ai giudici in stato di arresto, ammettono gli addebiti, si rendono conto: commettono atti criminali ma non sono delinquenti».
Non ci sono teste calde?
«Sì, ci sono ma per cento teste calde, altri mille si aggregano con piacere».
E l’ideologia fascista quanto conta?
«Io credo che non abbiano nemmeno le idee tanto chiare su questo. Lì c’è gente che non sa nemmeno cosa sia Auschwitz…»
Appunto...
«Sì, però è anche vero che molti si aggregano a una tifoseria senza sapere nemmeno di che colore sia. Quella dell’Inter è sempre stata tradizionalmente di destra. Ce ne sono altre tradizionalmente di sinistra. Ma quando si picchiano, è uguale».
E il razzismo?
«Secondo me non sono dei veri razzisti. Fanno i cori, ma poi non fanno discriminazioni concrete, possono avere amici di colore e stravedere per il campione nero di turno. La verità è che sono attratti da slogan tipo “prima gli italiani”, si sentono solidali con i ceti più deboli».
Li giustifica?
«No, ma è un fatto che molti ragazzi abbiano bisogno di questo genere di cose per sentirsi vivi. Forse ha ragione Salvini quando propone di sedersi a un tavolo con i capi ultrà. Bisogna ascoltarli e capire. Forse è l’unico modo per disinnescare la violenza».