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 2018  dicembre 31 Lunedì calendario

Il 37% delle ditte chiude in 4 anni

Oltre un terzo delle imprese individuali – il 37,4% – chiude entro quattro anni. E la mortalità resta elevata anche tra le società di persone: 20,5 per cento. Sono numeri dietro cui si nasconde la fragilità economica di tante attività in tempo di crisi, ma anche la piaga delle imprese “apri e chiudi”, come le ha ribattezzate la Guardia di finanza (Gdf). Aziende che nascono e muoiono in breve: evadendo l’Iva e le altre imposte, riciclando denaro sporco, aggirando le norme (su lavoro, contributi e sicurezza) e lasciando i fornitori a bocca asciutta. Per poi riaprire a stretto giro.
Bar, negozi e imprese edili al top delle chiusure 
I dati elaborati per Il Sole 24 Ore del Lunedì da InfoCamere tracciano fino allo scorso 30 settembre l’evoluzione delle imprese nate nel 2014. Si vede bene che i primi due anni di attività sono i più duri, soprattutto per le ditte. Senza contare le procedure concorsuali, il tasso di chiusure è più alto nei settori del turismo e ristorazione e del commercio (senza grandi barriere all’ingresso) e in quello delle costruzioni (legato al ciclo del mercato immobiliare). 
Ma oltre alle cessazioni “da crisi” ci sono quelle fraudolente. Su cui ha lavorato a lungo Giuseppe Nicolosi, procuratore della Repubblica di Prato, città con un forte tessuto di microimprese cinesi. «Soprattutto nel pronto moda, settore privo di specializzazione e con bassi investimenti, si aprono sacche di illegalità: sfruttamento lavorativo, elusione delle misure di sicurezza, evasione di imposte e contributi». Nicolosi si riferisce in particolare alle ditte individuali «che nascono, terminano qualche ciclo produttivo, e chiudono entro un paio di anni rendendosi irreperibili. Dove il titolare è un prestanome, le violazioni non raggiungono la rilevanza penale e le persone fisiche non vengono aggredite dai creditori perché incapienti».
Per colpire un’azienda che fin da subito opera fuori legge, Inps, Inail ed Entrate possono impiegare anche 24 mesi. Così, muovendosi tra le maglie dei controlli, qualcuno è persino in grado di abbassare la serranda e ripresentare l’attività con un altro nome. Un fenomeno che risulta più evidente tra i soci delle società di persone (21,6%, più di uno su cinque), come evidenzia l’analisi elaborata per il Sole 24 Ore dall’ufficio studi Cerved. A colpire è anche un altro dato: quello della nazionalità di origine dei titolari o dei soci. Gli stranieri, infatti, riaprono più spesso degli italiani. Si tratta in primis di cittadini originari di Pakistan, Egitto, Bangladesh e Cina, che per oltre il 16% tendono a riaprire (soprattutto ditte individuali). «Il dato sulla nazionalità è più eloquente di quello territoriale – spiega Valerio Momoni, direttore Marketing e business development di Cerved – perché a livello regionale i numeri variano meno e dipendono molto dalle differenti vivacità dei tessuti imprenditoriali». 
Rischio illeciti dietro le riaperture 
Le tendenza a “riprovarci” può essere favorita dal dinamismo dell’economia (al Nord) e dal sostegno di reti familiari (per gli stranieri). È certo, però, che il coinvolgimento in illeciti passati è uno degli indicatori monitorati dalla Gdf, come conferma Pasquale Russo, comandante del Nucleo speciale entrate: «L’uso dei prestanome è molto frequente, ma le precedenti frodi fiscali, i mancati versamenti, le dichiarazioni omesse o infedeli possono far emergere alert specifici sia per gli individui che per le società, oltre ai dati derivanti da indagini polizia e all’incrocio con le banche dati delle Entrate e del Lavoro». L’esperienza della Gdf evidenzia che le società “apri e chiudi” hanno una vita utile fino a due-tre anni e spesso sono usate per frodare l’Iva, fenomeno a contrasto del quale le Fiamme gialle hanno eseguito 13.792 interventi da gennaio 2017 a maggio 2018, con un recupero di oltre 3,2 miliardi di Iva e 1.300 persone denunciate per frodi fiscali. In prospettiva, «la possibilità di accelerare e mirare i controlli – osserva Russo – sarà favorita dalla possibilità di usare per analisi di rischio i dati fiscali contenuti nelle fatture elettroniche».