Il Messaggero, 31 dicembre 2018
I 50 anni di My Way, brano amato da tutti (tranne che da Sinatra)
Destino cinico di un narcisista esasperato: detestare la canzone che per forza di cose è diventata la propria sigla. E il destino è ancora più baro se c’è di mezzo il più potente e imitato cantante del Novecento, uno che le canzoni le ha sempre scelte con cura maniacale. My Way ha accompagnato la sua storia matura, eppure per Frank Sinatra era una condanna. «La odio» confessava, ma non poteva non cantarla in ogni occasione, pur riuscendo magicamente, col suo mestiere e la sua classe, a renderla eterna, depurata dal gusto tronfio non solo della melodia, ma anche del testo che Paul Anka aveva scritto pensando a lui. The Voice aveva inciso quella canzone, senza darle troppa importanza, poche ore prima di esibirsi per lo show di Capodanno del 1969 al Ceasar’s palace di Las Vegas, giusto cinquant’anni fa. Bastò mezz’ora: come al suo solito, buona la prima. Poi telefonò a Paul Anka e gliela fece ascoltare al telefono: «I did it my way». La canzone diventò il titolo di un album di cover, compresi i Beatles e Mrs. Robinson di Paul Simon, evidente sforzo da parte di The Voice di stare al passo coi tempi in quel momento di rivolgimento nella musica, dove il regno del più grande cantante della storia vacillava, fino a fargli meditare il ritiro. La cosa buffa è che anche a Paul Anka quel pezzo, che i francesi Claude e Jacques Reveaux avevano chiamato Comme d’habitude, racconto di un amore finito male (quello di François con la cantante France Gall), non piaceva del tutto: «È una canzonaccia, ma ha qualcosa» commentò, dopo averla sentita alla radio, mentre era in Costa Azzurra. Volò a Parigi e ne acquisì i diritti per un solo dollaro, lasciando agli autori le loro royalties (nello stesso periodo anche David Bowie aveva realizzato una versione in inglese intitolata Even a fool learn to love, che poi non ha avuto seguito: ma su you tube c’è un promo niente male).
L’AUTORE
Tornato in America, l’autore di Diana capì che poteva cucire quel pezzo sulla voglia di «ritirarsi dagli affari» che Frank gli aveva confessato una sera a cena, parlando di quel suo momento di ripiegamento: aveva divorziato da poco con Mia Farrow, aveva 53 anni e le scatole piene. Retroscena che offre il giusto senso ai quei versi iniziali, dall’apparenza iettatoria: «E adesso la fine è vicina/così ho davanti/ l’ultimo sipario». Un testo che, ha ricordato Paul Anka, è stato scritto di notte «di getto, poi, alle cinque di mattina, ho chiamato Frank e gli ho detto: ho una cosa speciale per te». La canzone, incorniciata dall’arrangiamento di Don Costa, prese il volo lentamente ma inesorabilmente ma, a ritirarsi, Sinatra ci mise due anni e altrettanto impiegò per il ripensamento, spinto proprio dal successo crescente di My Way, diventata, grazie alla sua voce capace di darle senso e profondità, un inno egocentrico alla sua storia di uomo caduto e risalito, discusso e pieno di scheletri nell’armadio, perfetta per i finali di show sempre più celebrativi, ospiti di stadi, o davanti alle piramidi, amato da dittatori (come Milosevic) e presidenti (Trump l’ha usata per il suo primo ballo con Melania da presidente), gettonatissima a compleanni e funerali, capace di resistere al tempo, oggetto di centinaia di reinterpretazioni compresa quella dissacratoria dei Sex Pistols (che Scorsese usò nel suo Quei bravi ragazzi). Un fatto è certo, però: sulla sua tomba Sinatra ha voluto il titolo di un altro suo cavallo di battaglia, meno retorico e più ottimista: The best is yet to came, ovvero Il meglio deve ancora venire.