La Stampa, 30 dicembre 2018
Il ritorno di Di Battista
Siamo in piena «Dibbamania». Neanche il tempo di tornare dalla giungla guatemalteca che tutti già lo tirano di qua e di là e si chiedono: cosa farà Alessandro Di Battista? Avrà un posto di governo, in Europa? Dove userà il megafono in funzione anti-Salvini? Per mesi è stato l’oracolo sudamericano, la buona coscienza del Movimento che si è impastoiato con i compromessi della difficile convivenza di governo, il moralizzatore in pantaloncini con moglie e bebè al seguito che ha fatto dire, sprezzante, a Matteo Salvini: «Facile parlare dalla spiaggia, lo aspettiamo in Italia».
Ora che è qui, con una mezza idea di ripartire, prima o poi, alla volta dell’India, si ragiona su come utilizzarlo al meglio. Tanta tv, questo è certo, anche se lui ha chiesto di evitare sovraesposizioni da ubriacamento di massa. E tanta piazza, come piace a lui. Ma anche un tour europeo assieme a Luigi Di Maio, per costruire il sogno di un’internazionale pentastellata, il terzo polo alternativo al dominio popolar-socialista di Bruxelles ma anche all’esercito sovranista guidato da Salvini. Ne sapremo di più domani, a Capodanno, quando con Di Maio registreranno un messaggio video per lanciare la campagna del 2019. Quel che i due non racconteranno è che tra i vari costumi di scena che nella sartoria grillina stanno provando per Di Battista, c’è anche il completo elegante che si indossa al governo, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, o addirittura a Bruxelles come commissario europeo. Se n’è parlato, e lui stesso le ha lasciate cadere lì tra le ipotesi senza escluderle. D’altronde non ha mai mancato l’occasione di ricordarlo: «Pensate, se fossi rimasto avrei potuto fare il ministro…». In realtà lo può fare tuttora, perché il divieto del doppio mandato separa la carriera elettiva del parlamentare da quella di governo, dove si è nominati e non scelti per via popolare. Ma non sarebbe il ministro il ruolo che Di Maio, assieme ai suoi consiglieri, aveva in mente per lui, nonostante Di Battista da sempre sia solleticato dall’idea di andare agli Esteri. Il vicepremier lo vorrebbe come sentinella a Palazzo Chigi, accanto a Giuseppe Conte, secondo lo schema di Salvini che ha piazzato il suo braccio destro, Giancarlo Giorgetti alla presidenza del Consiglio come sottosegretario. L’altra strada sondata da Di Maio porterebbe invece Di Battista a un ruolo di prestigio in Europa, da commissario, ma è un’ipotesi molto più complicata da realizzare. Resta il fatto che se n’è parlato in gran segreto, durante le riunioni grilline.
All’improvviso è stato il dibattito sul rimpasto, riacceso dalle dichiarazioni di Conte, a rendere più attuale lo scenario di un innesto che farebbe da contraltare all’egemonia di Salvini e nelle speranze di Di Maio indebolirebbe Giorgetti. In attesa che le idee siano più chiare, Di Maio prende tempo. Fa smentire Conte sul rimpasto che lui stesso fino a qualche giorno fa non escludeva, per non esporre i ministri più deboli (vedi Danilo Toninelli) all’assedio leghista. «Se ne parla dopo il voto», avverte. Ora Di Maio vuole dedicarsi all’appuntamento europeo, con una serie di tappe a Bruxelles e non solo, dove dovrebbe seguirlo anche Di Battista, con l’obiettivo di stringere accordi di cartello per un gruppo autonomo all’Europarlamento.
Ma il vicepremier del M5S sa benissimo che non sarà facile sedare i malumori che agitano il governo, a partire dalla sua testa. Conte, dicono fonti grilline, non ha parlato di rimpasto a caso. Vuole spingere alle dimissioni il ministro dell’Economia Giovanni Tria che però non sembra per nulla intenzionato ad andarsene, non dopo aver costretto i giallo-verdi a piegarsi sul deficit come chiedeva l’Ue. «Perché dovrei andarmene ora?», va ripetendo. Chi invece al Tesoro non sta più bene è il sottosegretario Alessio Villarosa. «Fammi andare via», ha chiesto a Di Maio, «Senza deleghe qui al Mef non servo a niente». Stesso umore dell’economista Lorenzo Fioramonti, parcheggiato come sottosegretario al ministero dell’Istruzione dopo che gli era stato promesso il posto da ministro dello Sviluppo economico, ha chiesto di essere liberato dall’incarico. Chi invece è finito nelle brame della Lega sono la ministra della Sanità Giulia Grillo (il dicastero interessa alla componente lombardo-veneta del Carroccio) e il ministero dei Beni Culturali Alberto Bonisoli. «Troppo in continuità con Franceschini», sussurra anche ai grillini la sua vice, la rampante leghista Lucia Borgonzoni. Il bottino grosso però per la Lega restano le Infrastrutture. Pur di non cederlo, Di Maio ha in mente un giro di poltrone che prevede di promuovere il capogruppo Francesco D’Uva ai Rapporti con il Parlamento, dove siede Riccardo Fraccaro che andrebbe a sostituire Toninelli.