Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2018
L’antica arte di inchiostrare i marinai
Oggi sono naufragati in un mare di banalità, ma c’è stato un tempo in cui i tatuaggi significavano molto, perché prima di aderire alla pelle aderivano alla storia di chi si lasciava inchiostrare il petto e in una mareggiata di pigmento blu la schiena, le braccia, le dita, le gambe. Sono stati i marinai infatti a portare l’arte del tatuaggio in occidente, e prima di tutti i marinai inglesi e americani, protestanti e indifferenti all’anatema di papa Adriano I che nell’VIII secolo considerava sacrilego il corpo “dipinto”, perché il corpo è lo specchio di Dio e solo lui può scarnificarlo, come racconta oggi il volume Marins Tatoués di Jérôme Pierrat ed Éric Guillon.
James Cook e del suo equipaggio, sbarcati a Tahiti nel 1769, scoprono l’arte polinesiana del tatau, da ta colpire, e la bellezza di quei corpi ricamati (e per coglierne lo splendore basta sfogliare il volume di Gian Paolo Barbieri, Tahiti Tattoos). Inizia così un contagio felice che mescolando acqua di mare e inchiostro giunge fino al porto di New York, dove dal 1846 opera Martin Hildebrandt, ex marinaio e virtuoso dell’ago, e a fargli pubblicità è la figlia Nora e i suoi trecentosessantacinque tatuaggi, fiori, farfalle, uccelli. Uno al giorno. Con l’arrivo delle navi a vapore si ampliano le rotte, anche quelle del tatuaggio, e sbarcando a Rangoon, a Yokohama e nei porti cinesi i matafs, così i marinai nel francese delle stive, accolgono sulla pelle tigri e dragoni. Li seguono, nella strana democrazia del mare, i nobili europei. Così il Duca di York, futuro Giorgio V, si fa tatuare in Giappone da Hori Chiyo, e così il Duca degli Abruzzi, a bordo della Regia Nave Liguria che dal 1902 al 1904 aveva circumnavigato il globo, giunge a Sri Lanka e insieme all’equipaggio si lascia “inchiostrare” un veliero sul petto. Scandaloso mostrarlo a corte. Ma se Luigi Amedeo di Savoia, in incognito, si fosse tolto la camicia altrove, ogni marinaio del mondo avrebbe saputo che anche lui aveva passato Capo Horn. Questo significava il tatuaggio del veliero a tre alberi. Un’ancora e si ricordava di aver attraversato l’Atlantico. Una rondine e si dichiarava di aver navigato per oltre cinquemila miglia marine. E se per caso compariva un crocefisso sulla schiena, allora il marinaio sperava di ricevere meno frustate, perché a soffrire sotto i colpi era anche il figlio di Dio.