Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2018
A tavola con Vittorio Colao
«La globalizzazione non ha funzionato. La troppa omogeneità ha reso il mondo piatto e indifferenziato. E questo è il problema culturale e identitario. È vero che la globalizzazione ha contribuito all’incremento del benessere mondiale. Ma è altrettanto vero che questa crescita complessiva ha anche provocato lacerazioni nel mondo occidentale perché non abbiamo migliorato l’accesso individuale ai common goods, quei beni comuni che fanno sentire ogni persona un cittadino e ogni cittadino una persona. E questo è il problema politico e civile».
Vittorio Colao, 57 anni, è uno dei principali manager del capitalismo internazionale. Ha da poco lasciato la guida di Vodafone, dopo una leadership strategica e operativa iniziata nel 2008, l’anno dell’avvio della Grande Crisi e della fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta. Dall’annuncio dell’uscita da Vodafone, per molti ruoli vacanti nel piccolo teatro italiano e nel grande proscenio internazionale è stato fatto il suo nome. Non ci sono tanti altri con la stessa esperienza di quella che un Paolo Volponi redivivus chiamerebbe “la nuova macchina mondiale”. Ora si divide fra Londra, dove vive con la famiglia, e Milano, dove ha conservato una casa e dove il suo ufficio è racchiuso nell’iPad: «Anche a Londra, dove ci sono grandi distanze fra un punto e l’altro, mi fermo da Starbucks a lavorare, a telefonare e a incontrare le persone».
A Milano da Rovello – ottima cucina piemontese, eccellente lista dei vini, ma tavoli leggermente stretti per uno alto come lui e uno di robusta complessione come me – Colao può delineare una riflessione articolata sui meccanismi di funzionamento della globalizzazione e perfino sulla sua semantica: «Le lingue del capitalismo manageriale, delle società di consulenza e della Silicon Valley a un certo punto sono iniziate a risuonare o come incomprensibili o come vuote». Può soffermarsi sul ruolo delle multinazionali e sulla crisi del mondo occidentale che ha aperto la porta ai populismi: «Non possiamo non interrogarci sui Gilets Jaunes in Francia o sul successo dei Cinque Stelle in Italia. Una delle ragioni della spaccatura fra élite e popolo è il mancato funzionamento dei servizi pubblici: come fai a rispettare lo Stato se nella scuola di tuo figlio o all’ospedale i muri sono malconci?». E, con uno sguardo disincantato, può sottolineare l’eterna transizione italiana, sempre sospesa fra la vitale intelligenza del nostro tempo e la remissiva sottomissione agli istinti storici.
«Le multinazionali – riflette mentre il cameriere ritira un poco perplesso la lista dei vini, soltanto acqua minerale per entrambi – sono state, dagli anni 90, un elemento essenziale dell’organizzazione della modernità». Colao è l’italiano più alto in grado nelle gerarchie dell’economia internazionale degli ultimi quindici anni insieme a Sergio Marchionne: «Anche se lui era un’altra cosa rispetto a noi manager: apparteneva alla categoria degli imprenditori che credono al loro progetto in maniera così intensa da farlo prevalere su tutto, visionari che creano realtà che prima non esistono, come Steve Jobs e Masayoshi Son».
Colao ha una formazione mainstream: la laurea in economia alla Bocconi, l’apprendistato in McKinsey, il master ad Harvard. Ma, allo stesso tempo, ha un punto di vista divergente rispetto allo standard ortodosso, anche grazie all’educazione italiana («Ho frequentato con grande gusto il liceo classico») e alla crescita in un ambiente familiare particolare: il padre Ezio era un calabrese con sei fratelli, un ufficiale dei carabinieri diventato negli anni del terrorismo il capo del personale della Total Italia («Anche io, dopo i cinque mesi alla scuola ufficiali alpini di Aosta, ho fatto l’ufficiale dei carabinieri a Genova al battaglione Liguria») e la madre Maria Amalia era una bresciana capace di parlare sei lingue, una cattolica che seguiva le attività internazionali della Fuci («In casa c’era sempre viavai di stranieri: ricordo tanti africani, ma anche bulgari e iraniani»).
Dice Colao, mentre affrontiamo gli antipasti, acciughe del Mar Cantabrico con il burro lui e peperoni con il tonno io: «Nei miei dieci anni da ceo in Vodafone, ho puntato non sul globalismo, ma sull’internazionalità. La nostra identità aziendale è stata fondata sui valori internazionali e sulle radici locali. Alle riunioni con 250 dirigenti, durante il Ramadan, non cenavamo fino alle nove e mezza di sera per rispetto verso i sette, otto nostri colleghi di fede musulmana. Ma, allo stesso tempo, loro rispettavano il fatto che, a cena, si bevessero birra e vino. Non abbiamo mai alterato le nostre politiche sull’Lgbt nei Paesi, per esempio l’India o l’Egitto, dove potevano esserci problemi: ci siamo considerati degli ambasciatori dei valori di inclusione e tolleranza. Allo stesso tempo, operando in realtà dove esistono opacità sul confine fra il settore pubblico e il settore privato, abbiamo sempre rifiutato non solo la corruzione ma anche i comportamenti ambigui».
C’è la questione dei legami delle multinazionali con le società che li ospitano. E c’è il tema della fisiologia intima del grande capitalismo: i fattori che lo compongono e le dinamiche che si innescano, all’interno delle multinazionali e nella dialettica con l’istituzione del mercato. Lo stile manageriale di Colao è basato su tre elementi: la strategia, l’impresa e le persone. Colao inizia a sviscerarli, mentre affrontiamo il piatto principale: vitello tonnato lui e agnolotti del plin al burro e salvia io. «La tua eredità sono le persone che hanno lavorato con te e che rimangono dopo che tu sei uscito. Dopo cinque anni, nessuno si ricorda più le grandi operazioni. Non ho mai avuto l’ossessione per la finanza di impresa. Appena laureato, in Morgan Stanley mi dissero: “Se ti appassiona la transazione, vieni da noi. Se ti appassiona l’oggetto della transazione, vai da McKinsey”».
La visione realizzata da Colao in Vodafone è stata improntata alla crescita, alle aggregazioni e al consolidamento: «Vodafone ha sviluppato un codice culturale molto caratterizzato. Quando come Omnitel venimmo acquisiti, ci aspettavamo di essere colonizzati e dominati dall’Inghilterra. Invece, andò diversamente. Chris Gent, che con la sua Bentley e il cricket, i bretelloni e la formazione da cfo rappresentava il meglio dell’impero inglese e della sua evoluzione economica e finanziaria, radunò tutto il management, sia della capogruppo sia delle società acquisite in Europa, in un castello nella campagna inglese. Per due giorni discutemmo di valori. Fu una vera e propria agorà: da subito si formarono due orientamenti in cui i nuovi, cioè noi italiani, i portoghesi e i tedeschi, parlavano di passione, crescita e clienti al centro di tutto, mentre i vecchi, ossia gli inglesi, parlavano di profitti e di City. Alla fine di quei due giorni, capitò quello che nessuno si aspettava. Gent disse: “Hanno ragione i ragazzi”».
In quella riunione si definì e si coagulò il codice genetico di una multinazionale anomala che avrebbe poi, con Colao amministratore delegato, perseguito una crescita basata sulle acquisizioni e sulle integrazioni e animata da una logica di valori e persone. Una impostazione differente rispetto alle articolazioni più dogmatiche dell’economia internazionale. Ricorda Colao: «In Vodafone ho realizzato 116 miliardi di euro di disinvestimenti, 100 miliardi di investimenti e 50 miliardi di acquisizioni. Ho scelto di vendere molti pacchetti di minoranza. Ho sempre preferito, quando possibile, acquistare il controllo e integrare le persone. Non ho mai voluto comprare influenza attraverso posti in consiglio di amministrazione e accordi più o meno espliciti. Il capitalismo degli incroci azionari e delle zone di influenza non funziona. Basti vedere quanto è capitato in Renault-Nissan e in Corea».
La Renault-Nissan segnata – oltre che dai comportamenti di Carlos Ghosn – dagli incroci azionari e dagli squilibri reddituali e industriali fra le due componenti francese e giapponese e la Corea caratterizzata dagli intrecci infragruppo fra società che compongono i chaebol, un modello di conglomerata sempre più criticato dai fondi di investimento e dallo stesso governo. Continua Colao: «Oggi la disruption tecnologica è tale che un capitalismo rigido e con equilibri costanti e prefissati non funziona più».
Il capitalismo rigido e con equilibri costanti e prefissati ha una sua versione ancora più condizionata, inguantata e ossificata in Italia. Un Paese conosciuto da Colao nelle sue dimensioni più distanti: la startup – con Francesco Caio e Silvio Scaglia – di Omnitel, la maggiore creazione di valore della storia industriale italiana, e la guida dal 2004 al 2006 di Rcs-Corriere della Sera, allora ancora retaggio del vecchio Novecento con le intersezioni fra Mediobanca, Fiat e le famiglie storiche del capitalismo italiano. «Nei miei due anni in Rcs – racconta Colao bevendo il caffè – dal punto di vista gestionale ho lavorato con grande piacere, ma ho compiuto un grave errore: ho pensato che sarebbe bastato spiegare razionalmente che la digitalizzazione avrebbe cambiato tutto nei giornali, mentre avrei dovuto raccontarlo meglio parlando al cuore delle persone, coinvolgendole di più. Da un punto di vista strategico, non ho invece potuto che verificare che il capitalismo di relazione è inefficiente. Questo non significa che le relazioni nel capitalismo non siano importanti. Ma, in un mondo in cui le discontinuità tecnologiche ribaltano continuamente gli assetti, non servono gli equilibri e le stabilizzazioni. E, questo, conta a livello internazionale e a livello nazionale. In tutto il mondo e tanto più in Italia».