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 2018  dicembre 30 Domenica calendario

Jonathan Pryce racconta com’è interpretare Papa Francesco

Due Papi è un’anomalia con la quale abbiamo imparato a convivere. Due papi gallesi a confronto è invece un’assoluta novità. Eccoli Jonathan Pryce e Anthony Hopkins, il primo Papa Francesco e l’altro Papa Ratzinger impegnati in lunghe conversazioni che li vedono tornare indietro nel tempo, fino alla gioventù di Bergoglio, in Argentina quando ancora era fumosa l’idea del sacerdozio e dopo, quando si trovò a fronteggiare, non è chiaro con quali risultati, il terribile regime del dittatore Videla. Il fulcro del film The Pope di Fernando Meirelles (City of God) è tutto lì. E non è poco. Prodotto da Netflix è stato girato in parte nella Reggia di Caserta adibita a Vaticano e a Cappella Sistina. Ora il prodotto è in post produzione.
Pryce, che appare come un ragioniere della costruzione di un ruolo, temprato sulle tavole del palcoscenico e con buone cartucce al suo arco, è ospite d’onore all’International film Festival «Capri, Hollywood» in corso in questi giorni sull’Isola Azzurra. Gira sempre con Terry Gilliam al fianco, il suo penultimo regista in ordine di tempo, ma che lui ritiene l’ultimo uomo ad averlo messo di fronte a se stesso in Don Chisciotte «Il ruolo-summa di tutta la mia carriera».Perché Gilliam dice di lei che «non ha vergogna»?
«Perché l’assoluta convinzione che ho di migliorare sensibilmente ogni sceneggiatura, anche la più mediocre, mi spinge ad accettarne di pessime pur di dimostrare la mia abilità. Ovviamente non ho avuto modo di cimentarmi ne L’uomo che uccise Don Chisciotte. Ma ho sentito che il personaggio definiva il culmine della mia carriera anche teatrale e mi permetteva, a 70 anni, di cavalcare e duellare».
Sorge spontaneo il dubbio: com’è la sceneggiatura di «The Pope»? È di quelle che la soddisfano?
«No, è molto buona e non mi sono dovuto lanciare in cambiamenti epocali. Certo, mi sono fatto la barba, ho messo su un bel po’ di chili e mi sono sforzato di somigliargli. Non sono cattolico, sono cresciuto da presbiteriano ma non professo. Mi è parso, il suo, un carattere complesso. Ma non ero un conoscitore del Papa, non ho fatto ricerche e ho conservato un “approccio laico” il più possibile».
Come le è apparso Francesco leggendo la sceneggiatura?
«Certamente non un santo, o almeno noi lo restituiamo così, con le sue incertezze e i suoi errori. La sua storia è complessa e le controversie nate nel suo Paese sono al centro del racconto. Tutto del suo passato l’ha reso quello che è, un personaggio interessante proprio perché uomo non perfetto. Attenzione, il lavoro non è un biopic e neanche un’agiografia destinata a un pubblico di cattolici. È un film coraggioso e sincero e come tale spero sia giudicato e apprezzato».
 Dopo averlo interpretato forse Francesco l’ha conosciuto un po’ meglio. Che idea se ne è fatto?
 «Quello che mi ha commosso di più è stato interpretare il Papa a Lampedusa, quando parla con i rifugiati e quando dice “La colpa non è di nessuno. Perciò è di tutti».
 Che rapporto ha avuto con Hopkins?
«Ottimo, siamo due vecchi che si parlano. Questa è la struttura. La conversazione tra i due è immaginaria ma quello che si dicono è reale. Ma non immagini staticità e noia. L’azione è piena di energia. Il regista ha fatto un ottimo lavoro».
Il film che potrebbe essere in corsa per l’Oscar è «The Wife» con Glenn Close.
«Un’opera a basso budget e con tempi limitati. La storia è nota. Io vengo insignito di un Nobel per la Letteratura e mentre mi preparo a Stoccolma per la cerimonia, mia moglie ripensa a 40 anni passati al mio fianco, sempre nell’ombra, e qualcosa si spezza».
Che rapporto si è creato con Glenn Close? Aveva letto il romanzo?
«Il libro non l’avevo letto, non leggo mai nulla che non sia la sceneggiatura dei film che devo interpretare. Ho spesso portato in scena personaggi reali e della letteratura e non ho cambiato approccio mai. Io voglio rendere concreto ciò che lo sceneggiatore ha scritto, che è poi ciò che arriverà allo spettatore. Il rapporto con Glenn è stato fantastico, eravamo concentratissimi e il regista Bjorn Runge, svedese anche lui, ha apprezzato i nostri suggerimenti. Come mi sono preparato? Ero prontissimo. Ho 71 anni e 47 li ho passati con mia moglie. Migliore training non poteva esserci. Un film ottimo e molto teatrale, influenzato da Bergman».