La Stampa, 30 dicembre 2018
Così la nuova jihad si sposta verso il Maghreb
Teste pensanti nel Sinai, manovalanza saheliana, roccaforti nel Sud della Libia e slanci verso il Sahara Occidentale passando per Marocco e Algeria. È una prima radiografia della jihad 4.0, emerge dagli attentati degli ultimi mesi, a partire da quello in Egitto, le cui matrici vengono ricercate nel Sinai, dove si annida una nuova leadership dello Stato islamico.
C’è poi l’attacco al ministero degli Esteri libico ad opera di kamikaze - sembra - dalla pelle scura, forse ciadiani e sudanesi, un elemento di distacco rispetto al passato, quando le attività terroristiche nel Paese erano appannaggio quasi esclusivo della cupola tunisina. Proseguendo per i ripetuti attentati nel Fezzan in cui trovano posto le bandiere nere tanto quanto Al Qaeda nel Maghreb, come dimostrano i raid compiuti da Africom proprio in Libia.
Osservate speciali sono infine le diramazioni verso il Sahara Occidentale, passando per l’Algeria esposta a infiltrazioni in reazione all’irrigidimento della situazione politica interna, e il Marocco, dove si sarebbe sviluppata una nuova intelligence terroristica, una cabina di regia della jihad tra Maghreb e Sahel. La conferma giunge anche dall’arresto di un cittadino con doppio passaporto svizzero e spagnolo in relazione al barbaro omicidio e alla decapitazione delle due turiste scandinave nell’Alto Atlante. L’uomo, che viveva a Marrakesh, sarebbe «impregnato di ideologia estremista» ed è «sospettato di aver insegnato a presunti affiliati all’Isis come usare gli strumenti di comunicazione delle nuove tecnologie e di averli addestrate all’uso di armi da fuoco».
Confini non controllati
Ad ogni modo, è il Sud della Libia il luogo a cui la jihad, in cerca di roccaforti sicure, guarda con interesse. A lanciare l’allarme è stato il deputato Mohammed Duma, eletto nella città di Tezirbu, 250 km a Nord-ovest di Kufra, dove alla fine di novembre i jihadisti hanno attaccato una stazione di polizia locale uccidendo 9 agenti e rapendone altri 11. «La debolezza delle forze di sicurezza nel Sud spinge i terroristi ad attaccare - avverte -, anche approfittando della difficoltà delle autorità a controllare i confini e le aree desertiche». Un monito è arrivato anche dalla missione Onu (Unsmil) che ha denunciato, fra gli altri, l’uccisione di sei ostaggi rapiti durante l’attacco dell’Isis ad al-Foqha, il 28 ottobre, l’attacco al Sahara Oil Field, che ha causato l’interruzione della produzione e una perdita di 388 mila barili di greggio al giorni, pari a 32,5 milioni di dollari, e i sabotaggi ai sistemi idrici di al-Hasawna.
Le assenze dello Stato
A Seba, le tensioni tribali sfociano in scontri armati tra la tribù araba degli Awlad Suliman e la minoranza etnica dei Tebu. Il tutto reso ancora più complicato da infiltrazioni dell’opposizione ciadiana, del «Movimento per la giustizia e l’uguaglianza del Sudan» e del «Movimento per la liberazione del Sudan» a cui appartengono le potenti tribù Zaghawa, Masalit e Fur, quest’ultima attiva nel Darfur. Violenze e assenza dello Stato fanno così del Sud della Libia un far west nel quale si mescolano conflitti e alleanze sempre più poliedriche tali da far temere il propagarsi della crisi libica in un’area già ampiamente destabilizzata e fragile come quella del Sahel». Il tutto alla luce della frenetica attività di gruppi terroristici, reti criminali transnazionali e milizie straniere lungo i confini meridionali libici, una delle «cerniere critiche» che si allungano sino al Sahara Occidentale. Un rischio tale che anche il protocollo di cooperazione di sicurezza firmato da Ciad, Niger, Sudan e Libia sembra non essere più sufficiente. Così il presidente del Ciad, Idriss Déby, si è rivolto finanche a Israele, dopo 46 anni di gelo diplomatico, chiedendo non solo un suo coinvolgimento nel contrasto ai gruppi armati presenti nel Sud della Libia, ma anche la partecipazione, con Usa e Francia, alla lotta alla jihad 4.0 quella che vuole fare di una certa Africa la nuova culla del terrore.