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 2018  dicembre 30 Domenica calendario

Intervista a Oscar Farinetti

Non c’è nulla nel volto di Oscar Farinetti che tradisca un qualche segno di tristezza. Sembra una maschera di ottimismo. Di serenità sconosciuta di questi tempi. All’indomani di una cena in una trattoria dove Farinetti esterna il meglio di sé, me lo vedo seduto alla stazione di Udine con il trolley tra le gambe. È difficile immaginarlo confuso tra i pendolari. Eppure è lì che sorride con la sua faccia larga e mi dice che quasi sempre usa i mezzi pubblici. È un’abitudine che gli consente di capire cosa fa la gente normale. Quella che si alza presto al mattino e pendola tra casa e posto di lavoro. Oscar è una rarità. Come un tartufo in un campo di insalata. O quasi. Già perché il “quasi” è l’avverbio che predilige. Perché dice e non dice, determina con cautela, approssima senza precisione, sfuma nell’incertezza. Ma è anche arrendevole, tollerante, poetico, quell’avverbio su cui lui ha scritto un libro: Quasi ( La nave di Teseo, con un saggio del filosofo Massimo Donà e i dipinti dell’artista Marco Nereo Rotelli): «Sono piccoli componimenti scritti nel corso degli anni. Non ho la presunzione che si tratti di poesia. Mi basta chiamarli pensieri».
In uno di questi pensieri affermi di essere fuori moda. Ne sei convinto?
«Non mi sento à la page. Come tutti sono esposto al cambiamento e non ci posso fare nulla. Mi piace ancorarmi alle cose semplici e durevoli. E soprattutto non mi siedo contento su quanto ho realizzato».
Sei un uomo insoddisfatto?
«Piuttosto direi inquieto. Anche se maschero l’inquietudine con l’ottimismo. Ma poi dico: chissenefrega se sono inquieto. Anzi, meglio così. L’inquietudine è il miglior antidoto alla noia. So che dopo un certo numero di anni devo cambiare altrimenti finisco con l’annoiarmi. Ho fatto l’elettricista, il salumaio. Mi sono occupato di vigne. E poi in grande di cibo. Ho voluto perfino fare il poeta, lo dico per gioco e perché come mi spiegava il mio amico Tonino Guerra la poesia è la parte più bella della vita e ognuno può mettere un po’ di poesia in quello che fa».
Parli seriamente?
«Certo, che credi? Tutto quello che posso raccontare di me non varrebbe nulla se non fosse anche il risultato di un sogno o di un’avventura. La poesia è la migliore assicurazione sul nostro futuro, e io ne metto un po’ nella mia vita».
Come è stata finora la tua vita?
«Una bella dose di fortuna, una parte di intuizione e molta tenacia. Sono un piemontese radicato alla terra».
Piemontese di dove?
«Sono nato ad Alba in un giorno di vendemmia del 1954. Era la fine di un settembre bellissimo. Le uve mature e grasse. Papà era di Barbaresco e la mamma di Barolo. Sono stato un predestinato di quella terra».
Tuo padre cosa faceva?
«Con fatica era diventato imprenditore. Ma era stato anche comandante partigiano. E io gli volevo assomigliare».
In che senso?
«Volevo essere lui. Con le sue storie. Aveva conosciuto bene Beppe Fenoglio che era stato allievo di Pietro Chiodi, insegnante al liceo classico Giuseppe Govone. Papà era il nipote della bidella e mi ricordo che diceva: Oscar, tu in quel liceo devi studiare. C’è gente straordinaria».
Ha conosciuto Chiodi?

«Non credo di averlo mai incontrato. So soltanto che era considerato un filosofo importante e un partigiano. Fu lui a spingere mio padre a entrare nella Resistenza. Poi ad Alba c’era Pinot Gallizio, un artista piuttosto strano che, scoprii in seguito, era stato amico di Guy Debord. Erano gli anni Sessanta e io piuttosto piccolo. Non ho fatto in tempo neanche a conoscere Fenoglio. Morì che avevo 9 anni».
Non hai neanche fatto il Sessantotto.
«Avevo 14 anni. La sola cosa che ricordo è che Carlìn Petrini veniva nella sezione del Psiup di Alba a parlarci di terra, di cibo e di rivoluzione. Era fantastico starlo ad ascoltare. Mi pareva che le sue parole creassero una grande scia da seguire. Ma non pensavo che sarebbe accaduto. E poi le parole vanno dove vogliono. Le guardi muoversi come in un giorno di festa. E ti rallegrano. In un giorno di pioggia ti rattristano».
Dai l’idea di uno che sa usare bene le parole.
«Ne ho rispetto e ho imparato che possono ferire ma anche guarire. Credo che le cose belle esistono solo perché qualcuno le sa raccontare bene. Altrimenti rimangono mute e silenziose».
È più facile parlare del brutto?
«Sì, perché il brutto non richiede sforzi, non vuole talento né impegno. Il brutto nasce dal nostro rancore, dalla nostra invidia, dalla nostra pigrizia. Dalla nostra ignoranza».
Quanto ti compiaci delle tue parole?
«Forse troppo. Ma ti assicuro che faccio sforzi sovrumani per compiacermi il meno possibile».
Parlami del tuo lavoro.
«Te l’ho detto, il modello è stato mio padre».
Cosa vuol dire che volevi essere lui?
«Era un uomo della Resistenza. Un partigiano. Nel mezzo secolo che abbiamo trascorso insieme, mi parlava spesso del suo mondo. Fatto di durezza, di coraggio e di rispetto. E penso che sia stato un grande imprenditore. Più bravo di me. Ma meno fortunato. Ascoltandolo mi sentivo un po’ sfigato per non essere nato in un periodo storico importante. Com’era stato il suo. È il motivo per cui ho compensato cercando sempre di essere un partigiano del lavoro».
Cosa vuoi dire?
«Un mercante, quando vende, di solito deve dare ragione a tutti. Io non voglio dare ragione a tutti. Voglio scegliere. Parteggiare. Non voglio vendere la luna a tutti».
E magari anche il dito.
«Quello serve anche per ricordarmi che il mio indice può indicare una direzione sbagliata».
Hai mai sbagliato strada?
«Non puoi imbroccarle tutte. Non sarebbe umano. Sbagliare è fondamentale. Ti ricorda l’imperfezione e con essa il dubbio, virtù suprema e unica certezza».
Non sembri uno che sul lavoro si macera nel dubbio.
«Sono molto rapido sul lavoro e detesto perdere tempo in lungaggini. Ma a proposito del dubbio ti dirò un cosa: il 31 agosto del 2010 aprimmo Eataly a New York. Agli americani illustrai le mie tre regole. Prima regola: il consumatore non ha sempre ragione; seconda regola: neanche Eataly ha sempre ragione; terza regola: da questo meraviglioso dubbio potrà nascere la nostra armonia. Secondo me questo è stato un gesto poetico».
Tu trovi?
«Potevo usare l’aggettivo “artistico” e magari lo avresti accettato. Quando Warhol realizza le sue opere d’arte lo fa reinventando il linguaggio della pubblicità».
Cosa pensi del marketing?
«Mi attrae moltissimo. Né tu né io abbiamo deciso di nascere nella società dei consumi. Siamo dentro a questo modello. Non possiamo prescinderne. Mille anni fa saremmo nati in una società della religione. E prima ancora in una società di guerrieri. O viceversa, boh. A noi invece è toccato un mondo fondato su un semplice triangolo: produzione, salario, consumo. Questa triangolazione si è intensificata in maniera vertiginosa negli ultimi cento anni».
Cosa abbiamo ottenuto?
«Una ricchezza meglio distribuita e una vita media che si è allungata di vent’anni. Il limite lo abbiamo scoperto quando la grande finanza ha messo le mani su quel triangolo snaturandolo. Eccedendo nella costruzione delle bolle speculative. La stessa ricchezza ha finito con l’avvantaggiare poche persone».
Si è passati dal reale al virtuale.
«Sì, ma alla fine sono convinto che, come nei film di Sergio Leone, vince Clint Eastwood, cioè il buono, e Lee Van Cleef, il cattivo, è destinato a perdere».
Ti ritieni un vincente?
«Non spetta a me dirlo. Ma ti assicuro che nella vita mi sono fatto un gran culo! Guardami bene. La vedi la scimmietta che ho sulla spalla? Non la vedi? Ma ti assicuro che c’è. Non mi lascia mai. Non si ferma mai. Parla. Balla. Salta. Mi aiuta a ragionare. A inventare. Mi aiuta ad andare ancora avanti. Lei ha più fame di me».
Vuoi dire che non sai per quanto tempo ancora potrai darle retta?
«È faticoso. Perché sono io che devo inseguire lei e non lei me. Dal 1978, quando ho cominciato a fare impresa, fino al 1986, sono stati 8 anni in cui non sono andato mai in vacanza. Lavoravo sette giorni su sette. E il momento più bello della giornata era quando scoccavano le cinque del pomeriggio. Perché sapevo che le banche a quell’ora non avrebbero più chiamato per il rientro».
Ti fanno paura i debiti?
«Ne ho il terrore. Ho sempre in mente l’acquisto che mio padre fece di un terreno. Pagava un mutuo con interessi al 24 per cento. Puro strozzinaggio. Rischiammo di fallire. E quando nell’ 86 saldammo ogni cosa, da allora ho potuto dire: ce l’abbiamo fatta».
Quando non lavori che fai?
«Non c’è un momento in cui, anche indirettamente, non stia lavorando. Perfino ora che ti sto di fronte non smetto di pensare ad altro».
Alla tua scimmietta, al tuo sogno, a cosa pensi?
«A quello che farò in un futuro prossimo».
Non ti accontenti di quello che hai?
«Quando un’impresa diventa troppo grande è il momento in cui
mi viene naturale pensare: e adesso cosa farò?»
Hai un risposta?
«Te la sparo grossa, ma non mi fraintendere. Penso che il pianeta si salverà se saprà dare un contenuto nuovo alla parola " rispetto". Mi piace sempre meno il prefisso "eco", eco-logico, eco-sostenibile. Tutte le parole che cominciano con "eco" le abbiamo usurate. Ma sai quando raggiungeremo il vero rispetto?» Quando?
«Solo nel momento in cui trasferiremo la parola rispetto dal senso del dovere al senso del piacere. Le grandi storie sono sempre un passaggio dal dovere al piacere».
La tua prossima grande storia dove vuoi che cominci?
«Sono nell’ultimo segmento della mia vita. Non devo dimostrare più niente. Però ho una strana voglia di ricominciare. Sai da dove? Da un piccolo, infimo, trascurabile pisello verde. Ecco: "Green peas" è il tema che risuonerà in un grande edificio che costruirò con il legno e il vetro riciclato. Voglio realizzare un "museo" a cielo aperto sul rispetto. Tornare agli elementi energetici naturali: al sole, al vento, alla terra. Pensi che sia pazzo?».
Un filo di follia a volte aiuta.
«Quello che voglio dirti e voglio dimostrare è che dipende solo da noi se questo cazzo di pianeta continuerà a stare ancora in piedi in modo decente e accogliente. Da noi, da nessun altro».
Auspichi il ritorno alla natura?
«Niente di patetico o di romantico e neppure di nostalgico. Non sono un nemico della scienza né della tecnologia. Le nuove tecnologie ci migliorano la vita e sarebbe da pazzi rinunciarvi. Ma bisogna saperle usare. In questo passaggio epocale, dove l’Occidente sembra aver smarrito la propria identità, le tecnologie ci dominano. Guarda Internet che casino ha fatto esplodere. Ma è sempre stato così. Fin da quando abbiamo scoperto il fuoco. Ci sono voluti centinaia di secoli per imparare a domarlo e a usarlo. Il nostro futuro è addomesticare il nuovo che arriva e che ha sempre qualcosa di barbarico».
Non credi che ci sia oggi nell’aria qualcosa che renda più facile credere alle bugie?
«Il mondo si divide tra venditori di fumo e venditori di arrosto».
A proposito di futuro come vedi l’anno che verrà?
«A volte ho la sensazione che la nostra storia abbia cominciato a corrompersi. Ci stiamo smarrendo. Abbiamo perso la fiducia che è il primo ingrediente per poter crescere bene. Ma alla lunga ce la faremo. Ne va della specie».
La fiducia rinvia alla fede, qual è il tuo rapporto con la religione?
«Non mi piace niente di tutto quello che sta nell’area del mistero. Penso che al centro di tutto ci debba essere l’uomo e non Dio. Siamo noi i responsabili delle azioni, sia in positivo che in negativo. Mio padre diceva: "Oscar mi raccomando affezionati alle persone e non alle cose". Non mi piace il lusso, non esibisco collezioni, non ho un autista personale, né una segretaria personale. Non ho biglietti da visita. Mi piace prendere il treno, come vedi, e confondermi tra la gente. Diventeremo speciali solo accettando la nostra normalità».