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 2018  dicembre 30 Domenica calendario

Il maiale contro il pregiudizio

Fino almeno a metà Novecento nel tardo autunno o nel primo inverno la vita contadina era animata, oltre che dalle feste canoniche, da un giorno effervescente, quello dell’uccisione del maiale. Festoso e con un’aureola di solennità, analogo a quello della celebrazione dei santi. «Quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e così per la morte de’ santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa», aveva scritto nel Quattordicesimo secolo l’irriverente Franco Sacchetti. 
Un topos ricorrente e duraturo se nelle pagine di un’opera seicentesca si legge che il maiale «puossi rassomigliare [paragonare] a’ virtuosi, quali vivi sono mal trattati, ma morti desiderati, honorati».
A scrivere queste parole è un nobiluomo bolognese, Vincenzo Tanara, autore di un libro di cose agrarie, e culinarie, L’economia del cittadino in villa, pubblicato a Bologna nel 1644, destinato ad avere ampia diffusione tanto che nel 1802 il «padre» della moderna agronomia, Filippo Re, doveva constatare – per nulla soddisfatto ritenendo i precetti agrari di Tanara antiquati ed errati – che «non vi ha forse libro di agricoltura il quale sia tanto diffuso come questo».
Non meraviglia certo che – come altri scrittori di cose relative alla campagna – Tanara si soffermi non poco sul maiale, il suo allevamento, la preparazione dei molti prodotti che ne derivano, come la mortadella bolognese di cui dà una dettagliata ricetta ancor oggi pubblicizzata dai produttori a smentita dell’annosa polemica, riaccesa – ad esempio – tra Ottocento e Novecento da Olindo Guerrini e Trilussa, se nell’antico salume bolognese entri anche carne d’asino. 
Più interessante – e, ch’io sappia, mai colto – è che si inserisca in modo originale e con forte empito civile in una tradizione giocosa sul porco di cui una delle prime notizie risale a Sofronio Eusebio Girolamo, San Gerolamo, vissuto fra il IV e il V secolo, autore della prima, celebratissima traduzione latina completa della Bibbia, la cosiddetta Vulgata.
In uno dei suoi commenti ai libri dell’Antico Testamento, San Gerolamo dà conto di un componimento che – dice – faceva ridere a crepapelle gli studenti poi noto come Testamentum porcelli, frutto secondo uno storico svizzero di una mano colta e forse composto in chiave satirica anticristiana. Un testo di cui ci saranno diverse versioni fino a giorni a noi vicini in cui un anonimo lo riprende in chiave anticlericale e di censura alla politica.
Sul punto di essere ucciso il maiale chiede di poter fare testamento per indicare a chi desidera lasciare le diverse parti del suo corpo. In origine è forse un testo legato a manifestazioni assimilabili alla goliardia. Donde anche qualche allusione licenziosa, poi caduta, come il lascito della coda alle ragazze (puellæ).
Fin dalla versione più antica che si conosca il suino destina le setole del suo dorso sutoribus (ai calzolai). Ed è qui appunto che Tanara, nobile di una Bologna parte – sia pure con uno statuto speciale – dello Stato pontificio, introduce una variante significativa, una sorta di non banale «onesta dissimulazione». Che, ad esempio, non sfiora qualche decennio prima uno scrittore popolare e dissacratore come il padre di Bertoldo, Giulio Cesare Croce, che appone al suo L’eccellenza et trionfo del Porco un testamento dell’animale «essendo per essere morto per nemica mano di Mastro Cuoco» in cui, secondo tradizione, il testatore decreta: «Lascio a’ calzolai le settole».
Tanara invece, nel riscrivere il testamento del porco, fa dettare al rogatore: «Lascio a’ dilettissimi Hebrei, da’ quali mai non ho avuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe, e far l’arte del Calzolaio».
Un modo per ricordare in un universo cupamente antiebraico che gli ebrei non sono solo usurai. Che lavorano e hanno delle virtù (magari aveva ragione Giovenale: gli ebrei non mangiavano maiale perché per loro la sua carne è troppo simile a quella degli uomini). Con sagace prudenza tuttavia. Son parole del porco… Se qualche occhiuto conformista avesse avuto da obiettare il nobile agronomo avrebbe sempre potuto ribattere che l’ebreo è «dilettissimo» per il porco, animale in vita disprezzato e che di questa sua natura si poteva dire facesse, per proprietà transitiva, partecipi i membri, a lui cari, del popolo «deicida».
A chi lungo più di un secolo e mezzo lesse la sua opera Tanara forniva però uno spunto di riflessione e di dubbio non da poco. Non dissimile, a ben vedere, a quanto scriverà Montesquieu ne Lo spirito delle leggi assumendo, contro l’Inquisizione, il punto di vista di un ebreo: «Volete che noi diventiamo cristiani, mentre voi non volete esserlo?».