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 2018  dicembre 30 Domenica calendario

Intervista a Fabrizio Bentivoglio

«Ricordo quella volta che, mentre stavamo provando “La tempesta” di Shakespeare, si sentiva in lontananza il sibilo fisso di una sega, che proveniva dal reparto di scenografia. Uno di quei terribili rumori, tanto più insopportabile perché piombava in sala nel silenzio più assoluto. A un certo punto, dal buio della platea, emerge la voce del maestro, Giorgio Strehler, che con tono stentoreo dice: “Fate tacere questo si bemolle!”. Naturalmente, dopo, andammo a verificare se la sega “suonasse” in si bemolle: ed era proprio così!». 
Per Fabrizio Bentivoglio, allora ventenne, quello spettacolo rappresentava la prima importante esperienza e grande prova scenica, anche se il suo destino lavorativo sembrava dovesse essere quello di fare il dentista. «Mio padre lo era e, quando frequentavo ancora il liceo, la mia strada appariva già segnata. Lui nel frattempo era mancato e, quando superai la maturità, per mantenere fede a una mezza promessa che gli avevo fatto, decisi di iscrivermi alla facoltà di medicina». 
Ma non era la strada giusta... 
«Assolutamente no. Pur avendo sostenuto tutti gli esami del primo anno, non riuscivo a entrare nella fascinazione delle materie, mentre guardavo con stupore i miei compagni di studio ai quali brillavano gli occhi quando assistevamo a qualche lezione di anatomia. Per carità... partecipavo con attenzione, ma a me gli occhi non brillavano. E poi, il caso vuole, che mi capita di sentire un’intervista». 
Quale? 
«Avevo l’abitudine di studiare con Radio Popolare perennemente accesa, un’emittente milanese seguitissima. E un pomeriggio ascoltai l’intervista a un neodiplomato alla Scuola Paolo Grassi: raccontava con dovizia di dettagli come funzionava l’istituto, i docenti, le caratteristiche dell’insegnamento, gli sbocchi... E per me chiudere il libro e correre a iscrivermi per sostenere l’esame di ammissione, fu un tutt’uno». 
E la promessa fatta al papà? 
«In realtà, molti anni dopo la sua scomparsa ho scoperto delle foto dove lui, giovanissimo, era in palcoscenico: non so cosa stesse facendo, cosa recitasse, forse una roba da teatro amatoriale, però evidentemente una passione doveva averla nel Dna e deve avermela trasmessa. Però lui da potenziale attore è passato a fare il dentista, io da potenziale dentista sono passato a fare l’attore». 
E pensare che voleva fare il calciatore. 
«Sì, da ragazzino, in una lontana stagione della vita amavo il gioco del calcio e arrivai a vestire la maglia della mia squadra, l’Inter. I miei genitori non ne erano felicissimi e una brutta caduta, con relativo problema serio a un ginocchio, mi fece interrompere gli allenamenti, fortunatamente». 
Addirittura una fortuna! 
«Non l’ho vissuta come una tragedia, anzi... papà e mamma avevano ragione, non ero adatto. Evidentemente serpeggiava già in me la passione per il teatro: la più grande fortuna è di far coincidere la passione con il proprio lavoro, ed è quello che mi è capitato». 
Un’altra fortuna, nella fortuna, è di essersi formato con grandi registi: oltre a Strehler, Giorgio De Lullo, Franco Enriquez, Maurizio Scaparro, Giuseppe Patroni Griffi... 
«E con grandi attori». 
Tra i quali Romolo Valli, a fianco del quale ha recitato nella sua ultima interpretazione, «Prima del silenzio». 
«Un titolo che è stato tragicamente premonitore. In quel periodo ero al settimo cielo: mi trovavo in una compagine di altissimo livello, la mitica Compagnia dei Giovani, gente che aveva lavorato con Visconti, eppure tutti mi trattavano alla pari, per di più calcavo le tavole del prestigioso palcoscenico dell’Eliseo in un’opera scritta apposta per Romolo da Patroni Griffi. Cosa desiderare di più? Purtroppo quella sera del 1980 l’incanto si spezzò: avevamo terminato la replica dello spettacolo, avevamo commentato l’ennesimo successo ottenuto, quindi ci salutammo come sempre... In piena notte, ricevetti la telefonata del nostro scenografo Pierluigi Pizzi e la terribile notizia dell’incidente: Romolo non c’era più». 
E interrompeste le repliche. 
«Certo! Lui era un faro, impossibile proseguire senza la sua presenza. Chi avrebbe mai potuto sostituirlo?». 
Ha iniziato la carriera con il repertorio dei classici, ha proseguito con il teatro contemporaneo: l’ultima sua interpretazione, «L’ora di ricevimento» di Stefano Massini. 
«Mi piace farmi sorprendere dal contenuto di un testo di oggi, che parla di problemi attuali. Nel professor Ardeche, protagonista della pièce, che insegna Lettere in una scuola della banlieue di Tolosa, a contatto con gli allievi spesso ostili, figli di immigrati di varia provenienza, un po’ mi sono riconosciuto». 
In che senso? 
«Lui si trova in un avamposto della società civile, appartiene alla generazione dei giovani anni ‘70, cui appartengo io, che ha provato a fare una rivoluzione senza riuscirvi ed è impreparato ad accogliere studenti che provengono da altre culture. La sua frustrazione nasce dalla difficoltà di comunicare con loro, il suo smarrimento è quello che viviamo noi occidentali, noi italiani. Non ho mai posseduto tessere di partito, tuttavia mi sento orfano di qualcuno che mi rappresenti veramente». 
Allude al Partito democratico? 
«Certo. I governanti attuali si trovano in una situazione di sfaldamento irreversibile, è difficile capire dove stiamo andando. Forse attraverso il teatro è più facile far capire al pubblico la confusione generale in cui ci troviamo». 
Però lei lavora molto anche sul grande e piccolo schermo: ha finito di girare «Il nome della rosa» per la tv ed è coinvolto in due film: «Il testimone invisibile» è in sala, l’altro in uscita... 
«Il film con Scamarcio è un vero giallo, si iscrive nella migliore tradizione del genere hitchcockiano: credo che per questo abbia avuto un ottimo risultato. Certamente non è natalizio, incuriosisce chi non è amante dei cinepanettoni. “Croce e delizia”, invece, è una commedia, dove avviene lo scontro di due famiglie italiane. I capi famiglia, Alessandro Gassmann ed io, si guardano in cagnesco: non è necessario prendersela con l’extra comunitario di turno, basta partecipare a una riunione di condominio nostrana per litigare con i vicini di casa. Lo facciamo tra noi italiani, figuriamoci con i migranti!». 
Lei non si arrabbia mai? 
«Non sono così saggio. Malgrado il self control che ci si può imporre, l’arrabbiatura arriva inaspettata. E se capita mentre lavori, è ancora peggio». 
Per esempio? 
«Ricordo una sera a teatro: durante il mio monologo iniziale, che è impegnativo perché sei solo in scena, a una spettatrice in platea si illumina all’improvviso il volto: aveva l’iPad acceso! Mi sono fermato, l’ho guardata e tutti gli altri spettatori si sono girati verso di lei che, ovviamente imbarazzata, si è decisa a spegnare l’aggeggio. Ma io mi domando e dico: stai partecipando a un rito laico, che è il teatro, puoi evitare in quell’ora e mezza di essere collegata con i social? Per non parlare poi di quelli che in sala cominciano a tossire: non si può andare ad assistere a uno spettacolo dal vivo se si ha la tosse: comincia uno e gli altri vengono contagiati, tossiscono tutti. Stare in palcoscenico non è un mestiere facile». 
Vorrebbe che questo mestiere lo facesse uno dei suoi tre figli?  
«Sono ancora piccoli ma già dicono che non lo vogliono fare, perché ci sono troppe cose da imparare a memoria e ciò mi tranquillizza. Però, anche in questo caso, aspetto di essere sorpreso. E le racconto un episodio divertente: quando mia figlia Vera era all’asilo, le capitò di assistere al discorsetto che il papà di una sua compagna faceva ai bambini per spiegare che indossava la cravatta perché doveva andare a lavoro. E allora lei ci pensò un attimo, poi disse: “Mio papà quando va a lavoro si mette i baffi finti, altro che cravatte!”. Ecco: mi camuffo con i baffi: questo è il lavoro dell’attore».