il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2018
Rileggere Ceronetti
Dal 13 settembre ho ripreso in mano tutte le opere di Guido Ceronetti, fra gli orgogli della mia biblioteca. Quella di Ceronetti è stata la perdita poetica più illustre del declinante anno. Ho ripreso, dico, quelle che da tempo non rileggevo: ché le traduzioni di Catullo, dei Salmi e di Qohélet (lo scettico Ecclesiaste) non mi abbandonano mai. Già esse ne renderebbero grande il nome. Solo l’unione di una sterminata cultura e di una terribile intelligenza, insieme con il talento poetico, poteva consentire il ritorno della pregnanza dei testi, che la tradizione classica addolcisce. Catullo è tenero, appassionato, ma anche violento e scommatico, oltre che sublimemente dotto. Lo stile di Ceronetti pare “attualizzarlo”, in realtà ne ripristina l’essenza. Quanto alle preghiere del Salterio, la versione dall’originale ebraico, spazzando duemila anni d’una pur irrinunciabile tradizione liturgica, fa intravvedere una religione barbara, feroce, esclusiva: con un fondamento materiale che spaventa.
Ceronetti era molto complesso. A veder la sua faccia, l’antiquato basco sempre a tre quarti, parrebbe un travet torinese, di quelli immortalati da La donna della domenica di Fruttero e Lucentini. Qualcosa di ossessivamente torinese era in lui: e lo si vede da come, rifacendo il Viaggio in Italia di Piovene, trasforma una libera e aerea narrazione nell’elenco geniale di mille minuzie nelle più umili e nascoste “pensioni” della nostra provincia. Non esistono più: e un artista ne ha salvato la memoria. L’altra faccia di Guido era il predicatore alto. S’era scelto la figura di colui che predica al deserto, inascoltato nella sua condanna di una modernità da lui identificata col male in quanto distruggitrice della stessa memoria. La sua avversione per tale modernità ha il tono del profetismo biblico: egli è l’Isaia e il Geremia dei tempi nostri. Ma con una rifinitura stilistica impareggiabile. Il suo concentrarsi sul mondo biblico come fonte di ogni sapienza è, peraltro, l’unico suo limite. A me piace assai più quando scrive di Virgilio, di Leopardi, di Mallarmé: allora diventa un profeta del vero. Ai miei vent’anni, la sua interpretazione del Secondo Libro dell’Eneide me l’ha rivelato. Sotto un altro rispetto, Ceronetti è un moralista, nel senso del grande Seicento. I suoi aforismi sono degni di La Rochefoucauld, Lichtenberg e Nietzsche. Chi non lo conoscesse, potrebbe incominciare da un aureo, brevissimo libello pubblicato nel 2016 dalla Adelphi, Per non dimenticare la memoria.
Ho verso di lui un immenso debito. Quando ci fu lo sbarco sulla luna, non avevo compiuto diciannove anni. Ero un ragazzo come quasi tutti, animato da un generico conformismo di sinistra. L’anno dopo, Ceronetti pubblica il folgorante saggio Difesa della luna. E altri argomenti di miseria terrestre. Lo lessi sgomento. Dunque non è vero che il progresso tecnologico sia la stessa cosa che un destino di felicità? Dunque la Natura, sfregiata, si vendica?
Poi in Aquilegia imparai il senso della pietà verso la stessa Natura, e incominciai a comprendere che cosa di terribile sia la sofferenza degli animali, sottoposti alla vivisezione, agli esperimenti farmacologici. E Ceronetti m’introdusse a Leopardi, come non erano riusciti gli studi accademici. Non l’ho più lasciato. Oggi credo che la mia migliore qualità sia il possesso del dubbio, del ripensare il già pensato, del revocare quanto ho affermato anche solo da poco. Questo lo debbo a lui. Erede anche dei filosofi antichi da lui avversati, insegna che la certezza non esiste, che la conoscenza è illusione.