La Stampa, 29 dicembre 2018
Nell’India dimenticata delle miniere allagate dove i ragazzini lavorano per 10 dollari
Non è che sia un mistero quel che accade in un angolo sperduto del Nord-Est straccione e misero di un’India dimenticata, dove le condizioni di minatori a malapena maggiorenni sono peggiori di quelle della Cornovaglia dell’800 descritta da Charles Dickens. Non è un mistero, perché c’è un sopravvissuto al disastro della miniera illecita di Ksan, nelle colline dello Jaintia orientale, dove dentro a un pozzo profondo 100 metri che si dirama in cunicoli orizzontali larghi solo quanto un bambino-minatore, le cosiddette «tane dei topi», è arrivato all’improvviso un fiume che s’è inghiottito 15 ragazzi.
Dopo due settimane di soccorsi a rilento, tra incompetenza e indifferenza, grazie all’attenzione mediatica e all’intervento di politici dell’opposizione, ieri sono accorsi, finalmente, in elicottero, i sommozzatori della Marina militare indiana. Soccorsi tardivi, visto che il pozzo di Ksan è stato inondato il 13 dicembre. La ricerca adesso servirà a trovare solo i cadaveri, perché nemmeno i familiari ormai credono più in una possibile caverna all’asciutto, come qualcuno aveva ipotizzato, dove potrebbero essersi salvati quei ragazzi che rischiavano la vita per l’equivalente di 10 euro al giorno.
L’unico superstite
«Ve lo racconto io com’è andata», spiega Soyeb Ali, 22 anni, giubbetto di finta pelle nera, mascella forte e ciuffo folto sullo sguardo corrucciato: è l’unico sopravvissuto al disastro. «Il capomastro ci ha portati in diverse miniere. Tutte allagate. Poi siamo arrivati a Ksan. Noi gliel’abbiamo detto: se sono tutte allagate si allagherà anche questa. Ma lui ha detto di scendere. Non avevo mai visto un buco così. Di solito ci sono le scalette di bambù. Anche lunghe 100 metri, fragili magari. Ma ci sono. Qui invece c’era solo una scatola di metallo attaccata a una catena e a una carrucola. Siamo scesi. Ho fatto notare che il carbone era troppo morbido. Era evidente che c’era troppa umidità. Eravamo vicini a molta acqua, laggiù a 100 metri. Stavo risalendo con l’ascensore pieno di carbone. Ero a un metro e mezzo dalla superficie, quando ho sentito un’ondata di vento caldo salire dal pozzo. Qualcuno deve aver bucato il fiume Lytein, ho pensato. O forse ha forato un tunnel di un’altra miniera allagata. La catena ha tremato. Ho guardato giù. L’acqua saliva rapidissima. Mi sono aggrappato e sono riuscito a salvarmi. Tra chi è rimasto là sotto ci sono i miei amici Shaher, Amir e Moinul. Tutti di Panbari, il mio villaggio giù a valle, nell’Assam. Sapevano che questa miniera non era sicura e che l’acqua sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento. Ma noi lavoriamo per combattere la povertà».
Tragedia annunciata
È la solita cronaca di un disastro annunciato. Solo un mese prima, a 50 chilometri da Ksan, Agnes Kharshiing, una militante per i diritti dei minatori, è finita in ospedale per l’aggressione di picchiatori criminali. Aveva osato mettere in evidenza la collusione tra la mafia del carbone e le agenzie governative locali.
Le miniere a «tana di topo» sono state dichiarate illegali nel 2014. È servito a poco. Perché questi lavori sporchi danno tanto lavoro irrifiutabile per i poveri del Nord-Est. Quell’anno morirono 4 minatori, l’anno prima 5, nel 2012 ne erano morti annegati 15, in quei budelli scavati nella terra rossa.
I colpevoli sono tanti: il proprietario, che è già stato arrestato e i politici locali in combutta con il crimine che sfrutta la manodopera mettendo a rischio vite di centinaia di persone. Sì, ma in questo caso anche la burocrazia assassina. Una richiesta per 10 pompe da 100 HP di potenza, firmata il 20 dicembre è arrivata capitale Shillong solo 7 giorni dopo. E anche la miseria. Un funzionario di polizia ha detto che i poveri del luogo non hanno chiesto subito aiuto perché l’estrazione mineraria illecita è l’unica vera fonte di sostentamento della zona.
Così adesso, come si suol dire, le ricerche continuano. Anche se dal pozzo, per ora, sono emersi solo tre caschetti gialli graffiati e ammaccati. Di chi, per povertà, ha fatto la fine del topo.