la Repubblica, 29 dicembre 2018
Sardegna, viaggio nella fabbrica delle bombe
DOMUSNOVAS Alla rotonda, poco fuori dall’abitato di Domusnovas, la strada per località Matt’e Conti non è indicata. C’è solo un cartello senza scritte, forse sbiancato dagli anni e dal maltempo. Ma dove sia la Rwm Italia, in paese, lo sanno tutti: basta seguire il traffico continuo dei camion. La città delle bombe sorge isolata nei prati, fra lentischi e peri selvatici, difesa da reti e filo spinato a rasoio. Lo stabilimento che ha regalato un nuovo soprannome a Domusnovas, un tempo “il paese delle grotte” per le cavità carsiche di San Giovanni, prima serviva a produrre esplosivi da scavo. Poi i tesori del sottosuolo si sono rivelati inquinanti, o troppo costosi da estrarre. E la provincia Carbonia-Iglesias è diventata una zona di disoccupazione altissima.
Parlare di città per la Rwm non è fuori luogo: occupa 70 ettari dei 200 di sua proprietà, con centinaia di capannoni e prefabbricati. Molti sono interrati, per motivi di sicurezza. Sulle porte bandierine rosse avvertono: presenza di esplosivi. Negli spiazzi centinaia di tubi d’acciaio attendono di essere condotti alla forgia. Altri, già sagomati nel classico disegno a ogiva, si raffreddano lentamente all’aperto. Dovranno essere rifiniti, verniciati, sabbiati, per poi essere riempiti con l’esplosivo.
Tradizionale Tnt o Tritonal per i clienti con meno pretese, un più moderno esplosivo a legame polimero Pbxn-109, per chi cerca migliori garanzie di sicurezza. Sui viali i bus interni per il cambio turno degli operai incrociano i furgoncini dell’agenzia di sicurezza, impegnati 24 ore su 24. A vestire la giacca a vento blu con la R stilizzata, fra lavoratori e quadri, sono 343, più 125 a Ghedi, in provincia di Brescia, dove si producono gli elementi meccanici ed elettronici delle bombe.
Un fiumiciattolo fra gli ulivi segnala il confine fra due comuni: Domusnovas e Iglesias, dove l’azienda vuole aprire nuove linee di produzione. Poco più in là c’è il reparto 104, dove un gruppo di operai dà gli ultimi ritocchi, montando i fondelli e sistemando sui pallet le MK-84, che superano i 900 chili, e le più piccole MK-82 da 240 chili. La striscia gialla indica che le bombe sono già cariche, in questo caso di Pbxn-109. «Lo chiamiamo esplosivo insensibile», spiega Fabio Sgarzi, ad della Rwm Italia, «perché non ci sono rischi che esploda per incendi, pallottole vaganti, o un’esplosione vicina».
Dopo gli ultimi controlli, le bombe verranno stipate nei magazzini e poi spedite in camion verso porti e aeroporti, secondo le scelte dell’acquirente. Gli operai non sono abituati a vedere giornalisti, ma superano il disagio: «Mi fotografi pure, non ci sono problemi», dice un giovane mentre monta gli anelli di sospensione su una MK-82. La bomba è grigia, destinata alle forze armate di Sua Maestà britannica. Poco più in là, un trespolo regge due enormi MK-84 verde oliva. Il cartellino recita: Islamic Sea Port, Jeddah, Saudi Arabia, e fa riferimento a un contratto del 2015. Buona parte della produzione Rwm, assieme a ordigni inglesi, americani, brasiliani, spagnoli, coreani, turchi, pachistani, sarà usata dagli F-15, dagli Eurofighter e dai Tornado dell’aviazione saudita nello Yemen. Una MK-84, dicono i manuali, lancia schegge letali per un raggio di 400 metri. Guidata dai satelliti, colpisce entro dieci metri dall’obiettivo. Con sistemi di guida laser, può sbagliare di un metro. Da Jeddah, questi ordigni potranno poi devastare le difese organizzate dai ribelli Houthi al porto di Hodeidah. Potranno spazzar via muri, cancellare ponti, annichilire blindati. E distruggere ospedali, radere al suolo scuole, straziare esseri umani.
«Le bombe Rwm sono considerate un’eccellenza», dice Sgarzi: fanno bene il loro lavoro, che però è distruggere e uccidere. E il nodo dello Yemen è difficile da sciogliere. La legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi in guerra. La fornitura Rwm ai sauditi fa riferimento a contratti datati 2015 e 2016. Allora l’Autorità nazionale Uama per l’esportazione di armamenti e il governo Renzi, con Roberta Pinotti alla Difesa e Paolo Gentiloni agli Esteri, avevano stabilito che l’Arabia Saudita non era un Paese in guerra. Punto di partenza era la risoluzione 2216 del 2015, adottata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, che faceva riferimento alla richiesta di aiuto del presidente yemenita ai Paesi arabi contro l’aggressione dei ribelli Houthi. In parole povere, non si trattava di guerra ma di legittimo sostegno a un governo in difficoltà che chiedeva aiuto. Ma anche se su questa definizione lo scontro è aperto, oggi è difficile negare che Riyadh sia “responsabile di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” per gli attacchi sui civili, e quindi che l’esportazione di armamenti, secondo la legge 185, debba essere rimessa in discussione.
Molti pacifisti credono che la tedesca Rheinmetall, proprietaria del 100 per cento dell’azienda di Domusnovas, usi la controllata per superare il blocco imposto dalla Germania alle esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita. «Sono sciocchezze», taglia corto Sgarzi: «La Rwm Italia è un’azienda italiana, segue le leggi di questo Paese. Le vendite a Riyadh sono autorizzate dalle autorità italiane. Il gruppo non c’entra: i rapporti con i clienti li teniamo noi». È vero che l’azienda di Düsseldorf acquistò la Rwm nel 2010, quando la guerra in Yemen non era immaginabile. «Ma è la proprietà che fa le scelte di fondo. Mentre nello Yemen si cerca la pace, la Rheinmetall potrebbe fare un gesto di coerenza e imporre la stessa linea seguita in Germania», si augura Francesco Vignarca, portavoce della Rete Disarmo.
Più che di coerenza ideale, però, in Sardegna si discute di sopravvivenza. «Nel Sulcis-Iglesiente l’attività mineraria è finita. Il turismo non decolla, l’economia agricola e pastorale è una realtà modesta. Su 120 mila abitanti, i disoccupati sono 30 mila. Dopo il polo metallurgico di Portovesme e l’Asl di Iglesias, la Rwm è la maggiore realtà occupazionale, con l’indotto “vale” un migliaio di posti di lavoro», dice Emanuele Madeddu, della Cgil. Ma la scelta fra produzione di bombe e disoccupazione è un dramma.
«Unica via d’uscita è trasformare gli impianti e produrre qualcosa d’altro», dice Arnaldo Scarpa del Comitato riconversione. Gli fa eco Cinzia Guaita: «Quando l’azienda ha cominciato, la produzione bellica valeva trenta posti di lavoro. Adesso sono trecento. Ma fra vent’anni saremo ancora più invischiati in fabbriche di morte? La Sardegna merita di meglio».
Il dilemma infernale ha spaccato l’isola a metà. I vescovi sardi si sono schierati ufficialmente per la riconversione. Le autorità locali pensano invece all’economia: in una zona depressa, dicono, rifiutare un lavoro stabile è impossibile. O quasi. Giorgio Isulu, operaio specializzato, padre di quattro figli, è stato espulso qualche anno fa da un’azienda che ha esternalizzato le produzioni. Gli hanno proposto di entrare alla Rwm. «Ho pensato, se un giorno mia figlia di otto anni mi chiedesse: qual è il tuo lavoro, papà? Dovrei rispondere: hai visto in tv i bambini massacrati dalle bombe? Ecco, io produco quelle bombe. No, non voglio».