Il Messaggero, 29 dicembre 2018
La rivolta disperata nel ghetto di Varsavia
Pochi giorni fa, il 22 dicembre, è morto, a 94 anni, Simcha Rotem. A molti quel nome non diceva nulla, e i giornali gli hanno dedicato solo poche righe. Eppure era un simbolo della fede e del coraggio del popolo ebraico. Era l’ultimo sopravvissuto del Ghetto di Varsavia.
Nella primavera del 1943 quasi tutta l’Europa continentale gemeva sotto il dominio nazista. Più di tutti soffrivano gli ebrei, di cui Hitler aveva disposto la soluzione finalecioè lo sterminio di massa.
LE FOSSE
Molti erano già stati uccisi ad Auschwitz, Treblinka, Sobibor, Chelmno e Maidanek; altri erano stati fucilati in fosse comuni dal Baltico al Mar Nero, da Riga a Babi Yar; altri infine venivano consumati dalla fame e dalle malattie all’interno dei recinti dove i nazisti li avevano rinchiusi. Il Ghetto di Varsavia era uno dei più grandi. Fino a pochi mesi prima aveva ospitato quasi mezzo milione di sventurati, ridotti a circa un decimo dalle deportazioni e dai decessi. In febbraio Himmler decise di farla finita, e ne ordinò la distruzione.
All’interno, vi era un nucleo della Zydowska Organizacia Bojowa, un gruppo di combattenti che decise di opporsi all’irruzione, e di «morire con dignità». Con poche armi e ancor meno munizioni affrontarono le efficienti e spietate SS del Brigadefuhrer Jurgen Stroop, un nazista fanatico e crudele, che iniziò le operazioni il 19 Aprile, pensando di chiuderle in un paio di giorni. In fondo aveva davanti – secondo la sua dottrina razziale – degli untermenschen codardi e rassegnati. Ebbe una sgradevole sorpresa. Per dieci giorni gli ebrei gli tennero testa sparando con armi leggere, tirando bombe a mano, e soprattutto impiegando le bottiglie incendiarie. Il 28 aprile i resistenti si ritirarono nelle cantine, trasformate in bunker improvvisati; per stanarli Stroop usò i lanciafiamme, e molti furono arsi vivi. L’8 maggio i pochi superstiti entrarono nelle fogne, e da lì qualcuno riuscì a raggiungere l’esterno. Otto giorni dopo, Stroop stilò il famoso rapporto conclusivo: «Il Ghetto di Varsavia non esiste più».
Nessuno saprà mai quanti furono i morti. Qualcuno disse cinquantamila, di cui molti ignoti: a centinaia erano stati carbonizzati, e i cadaveri erano irriconoscibili. Lo studio più recente di Saul Friedlander riduce il numero, ma non l’orrore. I sopravvissuti finirono quasi tutti nelle camere a gas di Treblinka. Per ironia della sorte, pare che si sia salvato il bambino che tutto il mondo avrebbe visto, nei decenni successivi, uscire con le mani in alto sotto il mitra spianato di una SS.
I CUNICOLI
Anche Simcha Rotem si salvò. Era scappato tra i cunicoli e aveva raggiunto la Resistenza polacca che cominciava a organizzarsi. E infatti dopo un anno, esplose a Varsavia un’altra rivolta, supportata da quel che restava dell’esercito nazionale. I patrioti confidavano nell’aiuto dei russi, che erano arrivati a pochi chilometri, dall’altro lato della Vistola. Ma Stalin non aveva nessun interesse ad aiutare i nazionalisti: non mosse un dito, ed anzi impedì agli aerei americani, che portavano i soccorsi, di atterrare nei suoi campi di aviazione. Ancora una volta, le famigerate ideologie naziste e comuniste si incontravano su terreno comune del cinismo e dello sterminio. La rivolta fu repressa, come la precedente, dalle SS, comandate stavolta da Bach- Zelewski, spietato come Stroop ma meno imbecille di lui. Rotem riuscì ancora a salvarsi. Finita la guerra emigrò in Israele.
I COMPARI
Jurgen Stroop si diede alla macchia, fingendosi, come Himmler e tanti altri suoi compari, un semplice soldato dell’esercito. Fu catturato, smascherato, processato e condannato a morte da un tribunale americano. Nel frattempo la Polonia aveva chiesto la sua estradizione. L’istanza fu accolta, e il 30 maggio 1947, quattro anni dopo l’eccidio del Ghetto, il boia nazista fu consegnato ai polacchi. Il pavido ufficiale, che aveva sperato in una delle tante amnistie che allora gli Alleati elargivano, fu preso dallo sconforto quando si vide affidato a un regime spietato quanto quello che lui aveva servito.
Fu messo in cella con un ex resistente, Kazimierz Moczarski, un patriota liberale che i comunisti al potere consideravano un pericoloso sovversivo. Moczarski condivise per più di otto mesi la cella con Stroop, e ne riassunse l’esperienza in un libro stupendo, Conversazioni con il boia che il regime censurò in parte, e che fu pubblicato integralmente soltanto quando la Polonia si liberò dalla schiavitù sovietica. Nel suo resoconto, lo scrittore non manifesta né rancore né desiderio di vendetta, si preoccupa essenzialmente di capire come un uomo possa ridursi a un livello così degradato. Anche lui giunge alle conclusioni di Hannah Arendt: Stroop, come Eichmann era un uomo banalmente burocrate e ostinatamente fanatico.
I CARCERATI
I due carcerati furono alla fine divisi, subirono due processi differenti, e furono entrambi condannati a morte. Ma la pena di Moczarsky fu commutata, e con la fine di Stalin arrivò la liberazione. Jurgen Stroop, al contrario, il 6 Marzo 1952 finì sul patibolo nella prigione centrale di Varsavia. Affrontò la morte con indifferenza, senza dar segni di pentimento. Fino all’ultimo, proclamò la fede in Hitler e la convinzione che la Germania fosse stata sconfitta da una congiura giudaico massonica: la cattiveria degli uomini può essere grande, ma nulla quanto la loro stupidità, come diceva Voltaire, dà l’idea dell’infinito.
La rivolta del Ghetto di Varsavia fu il primo combattimento organizzato contro i nazisti nell’Europa occupata. Lo fu senza possibilità di successo, perché mancava tutto, tranne la forza della disperazione e l’eroismo dei suoi protagonisti. Ma fu anche un esempio di audacia e di tattica militare: gli stessi tedeschi ammisero di aver trovato una resistenza inaspettata, viste le circostanze e i rapporti di forza. Anche da quell’esperienza nacquero la genialità e la determinazione che avrebbero fatto delle forze armate di Israele, uno dei più efficienti e temibili eserciti del mondo.
E fu nel ricordo di quell’evento che uomini come Simcha Rotem trassero il proposito di non consentire più la ripetizione di un simile massacro. Oggi i soldati di Tsahal giurano davanti alla fortezza di Masada, dove duemila anni fa i loro antenati preferirono uccidersi piuttosto che arrendersi ai romani. Il loro motto «Mai più Masada cadrà» si coniuga con quello che non sarà un altro Ghetto di Varsavia.
Più di ogni altro, Rotem ha dimostrato che più importante della pace, e anche della vita, sta il dovere imposto da Giuda Maccabeo: «Armatevi e siate uomini di valore: perché è meglio morire in battaglia che assistere all’oltraggio della nostra fede e dei nostri altari. Così vuole il Cielo, e così sia».