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 2018  dicembre 28 Venerdì calendario

Myung-whun Chung: «Non amo i concerti in tv»

Il «veneziano» Myung-whun Chung: alla Fenice apertura di stagione col Macbeth, in marzo Otello e ora il Concerto di Capodanno del primo gennaio in diretta su Rai1. È legato a una nobile causa: aiutare i bambini più bisognosi.
Come, maestro?
«Con un invito a una donazione all’Unicef, di cui sono ambasciatore da dieci anni. Ho visto tanti bambini che non hanno nulla: Cina, Filippine, Africa. Sono andato in Nigeria, nella città di Benin, con tre musicisti della mia Orchestra di Radio Francia. La vita lì è una tragedia». 
Se la sua bacchetta fosse magica…
«Purtroppo non ce l’ho. Io, nell’ordine, sono: un essere umano, come tutti; un musicista; un coreano. Sono prima di tutto questa musica, noi serviamo i compositori, siamo servitori e messaggeri».
Quattro anni fa ci disse che la speranza di pacificazione tra le due Coree era minima.
«Si sono consumate tragedie immense, mia madre non poté più rivedere metà dei suoi parenti, è difficile restare in contatto. Nel Paese, tutti, Sud e Nord, ci sentiamo fratelli. Ma siamo divisi per motivi politici. Si deve cambiare mentalità».
La musica cosa può fare?
«Molto. Al presidente della Corea del Sud un mese fa ho detto che sarebbe bello un concerto che riunisse le due parti. Ci sono buone possibilità che questo accada l’anno prossimo, a Parigi». 
Il Capodanno con i valzer dal Musikverein di Vienna lo segue da spettatore?
«So che c’è una lunga tradizione, ma francamente non vedo quel tipo di programmi in tv. Ho accettato di nuovo Venezia chiedendo di aggiungere qualcosa di positivo per l’umanità. È il momento di pensare a cosa possiamo fare di meglio».
In programma anche il valzer dal «Gattopardo» di Visconti.
«In Italia conoscete tutti quel brano, l’unico a non averlo mai sentito ero io!».
I pezzi d’obbligo verdiani, il «Va’ pensiero» cioè il coro di prigionieri ebrei, e il brindisi della «Traviata», si addicono al Capodanno?
«“Va’ pensiero” è un momento simbolico che fa volare lo spirito, lo valuto nel contesto di un messaggio di speranza, La Traviata è legata alla storia di Venezia».
L’11 gennaio riprende alla Scala «La Traviata» della Cavani. È diverso dal dirigere una nuova produzione?
«Io preferisco dirigere quelle vecchie, piuttosto che una nuova che finisce male. È più sicuro. Quando ero all’Opéra di Parigi ho fatto più di venti nuove produzioni: due erano eccezionali, 6 o 7 non male, il resto è stata una perdita di tempo».
Alla Fenice ha appena lavorato con un grande talento, Damiano Michieletto, ma la prima…
«Ognuno ha il suo gusto. Io non ero così contento di tutta quella plastica, faceva anche un po’ di rumore, invece a mia moglie è piaciuta subito. Ed è lei che comanda in casa».
A breve dirigerà a Santa Cecilia, che è stata la sua Orchestra.
«Ritroverò tanti buoni musicisti. Il direttore stabile ha il compito di far crescere la sua Orchestra, possono esserci lati non piacevoli. Il direttore ospite è un amico che va lì per il piacere di fare musica insieme. E, mi creda, è molto meglio».