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 2018  dicembre 28 Venerdì calendario

Il museo dei parassiti

Se c’è una cosa che ho imparato da Tokyo è che la città nasconde. Già lo sosteneva Fosco Maraini nel suo capolavoro Ore giapponesi, la cui prima edizione risale al 1956 ma che resta un testo di sconvolgente attualità: «Le città giapponesi, viste da terra e di giorno, sono ineffabilmente brutte».
Come ciò sia possibile, in un Paese che ha fatto della raffinatezza del gusto e della sensibilità al bello in ogni forma il suo tratto distintivo, Maraini lo spiega affermando che, da queste parti, «la bellezza è iniziatica, la si merita, è il premio d’una lunga e talvolta penosa ricerca, è finale intuizione, possesso geloso».
Come se il bello che è subito bello apparisse volgare. Vale la pena approfondire il concetto. «Accostare la città, il luogo dove tutti vanno e vengono, il territorio pubblico per eccellenza, all’idea di bellezza sarebbe un controsenso».
Perché le città giapponesi sono «strumenti di vita e lavoro», enti provvisori che servono i loro fini solidamente pratici. La bellezza c’è, eccome! La si deve però prima desiderare, cercare, e forse finalmente sarà dato di scoprirla. «Poi, una volta conquistata, essa ti disseta con raffinatezze inimmaginate altrove, tra giardini seclusi e templi, o ville, dove si realizza davvero la comunione più perfetta dell’uomo con quanto lo circonda. È bellezza come isola, momento, parola sussurrata, attimo; è qualità pura, ebbrezza di cui resterà poi eterna la nostalgia».
È bello, dunque, questo strano museo: il Museo parassitologico, che sorge nel quartiere residenziale di Meguro. Siamo a sud di Shibuya, con la sua colorata, brulicante umanità e le frotte di ragazzini che fanno ordinatamente la fila per un selfie accanto alla statua del cane Hachiko. Qui invece è tutto grigio e tranquillo. Eppure, in un palazzetto abbastanza anonimo di due piani, si trova uno fra i più strani musei del mondo, quello appunto dei parassiti.
In realtà si tratta della seconda raccolta al mondo, perché lo Smithsonian di Washington conta su una collezione molto più ampia, pari a oltre venti milioni di esemplari. «Appena» 60mila sono i parassiti del museo di Tokyo, 300 in mostra, con una biblioteca di 6mila volumi e 50mila documenti su parassiti e patologie a essi collegati. Tuttavia il museo americano non possiede il fascino di questo di Tokyo, non la sua intrinseca raffinatezza, lo stesso gusto: direi la stessa bellezza.
Si può parlare di bellezza riferendosi ai parassiti? Dopo aver visitato questo museo direi proprio di sì. Qui, nel blu cobalto di molte teche ordinate, galleggia la vita. Quella che non vediamo ma non per ciò può dirsi meno vera. C’è qualcosa che va al di là del semplice interesse scientifico nella esposizione puntuale e sistematica dei cicli della vita e della morte di tante creature. Nella rappresentazione in formalina dell’esistenza travagliata e formidabile di un parassita. Ovvero, di un essere che un lungo processo evolutivo ha costretto a massimamente sviluppare le sue capacità di adattamento, il cui destino dipende e si intreccia con quello dell’organismo parassitizzato. Di un essere che si è selezionato a tal punto da perdere tutti gli organi superflui, mantenendo solo quelli riproduttivi che gli assicurano la continuità della specie. E forse non sono poi così matti, i ragazzi giapponesi che utilizzano questo luogo per fissare appuntamenti romantici...
È ancora Maraini a spiegarci come sia naturale, per una società animista, comprendere appieno le ragioni intrinseche dell’evoluzionismo. «Per un popolo nel cui sostrato culturale dominava l’idea d’una possibile migrazione psichica di vita in vita, di specie in specie, la trasposizione d’un trasformismo millenario dai germi psichici alle morfologie anatomiche, parve non solo accettabile, ma naturalissima». 
La struttura fu inaugurata nel 1953 per volontà del medico Satoru Kamegai, che ne finanziò la costruzione. Non si tratta solo di un museo ma anche di un centro di ricerca, studi e istruzione. Al primo piano (il nostro piano terra) si espongono i parassiti con le loro biodiversità; al secondo le malattie che possono colpire l’uomo e i mammiferi. Qui si può ammirare il verme solitario più lungo del mondo, il Diphyllobothrium nihonkaiense: 8,8 metri. Un paziente che lo aveva contratto mangiando pesce crudo se ne liberò grazie a un vermifugo e lo donò successivamente al museo, dove fa bella mostra di sé... Non mancano le filarie, impiantate nei cuori, in tutto il mondo piaga ben nota agli allevatori di cani, trasmesse dalla zanzara. Tanti pesci, una tartaruga dagli occhi cisposi, circondati dall’Ozobranchus, parassita che colpisce, appunto, gli occhi e le zampe. A volte parassita e animale ospitante appaiono fusi in un indistinguibile groviglio...
Al secondo piano (per noi il primo), 45mila vetrini raccontano la storia di altrettanti microorganismi. Dieci volumi, un’opera monumentale, invece, occupano i minuziosi disegni di parassiti, realizzati tra fine Ottocento e primi del Novecento dal professor Sachu Yamaguchi. Tutte le didascalie dei reperti sono scritte solo in giapponese. Potrebbe essere un limite, ma non ci si può lamentare, considerando che l’ingresso al museo è completamente gratis (anzi, sarebbe buona norma lasciare un’offerta per la ricerca). Tuttavia, a mio parere, l’eleganza dei kanji e dei caratteri nipponici contribuiscono ad accrescere il senso di straniamento e sono parte integrante del fascino di questo luogo. Inoltre, grandi pannelli illustrativi di notevole impatto, spiegano bene la natura dei reperti.
Tra i tanti, colpisce un disegno di Katsushita Hokusai (lo stesso de La grande onda di Kanagawa) che documenta l’elefantiasi dello scroto, causata da alcuni protozoi. Un’immagine estrema in cui lo sventurato affetto da tale patologia sostiene la parte colpita con alcune canne di bambù...
Per chi proprio non potesse farne a meno, comunque, al secondo piano, c’è un negozietto di souvenir dove è possibile acquistare una sintetica guida in inglese.