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 2018  dicembre 27 Giovedì calendario

Biografia di Ratan Tata

Ratan Tata (Ratan Naval T.), nato a Bombay il 28 dicembre 1937 (81 anni). Imprenditore. Ex presidente di Tata Group (1991-2012; 2016-2017) • «Tutta la storia del gruppo Tata, la più antica dinastia capitalistica dell’establishment indiano, si svolge in parallelo con la storia del Paese nell’ultimo secolo e mezzo. Il meglio dell’India si identifica con loro, ma nelle vicende del gruppo si sono rispecchiati anche i momenti di debolezza e di declino. Il capostipite Jamsetji Nusserwanji Tata era figlio di un commerciante parsi di Bombay, membro della minoranza di antica origine persiana la cui religione discende dal culto di Zoroastro. Era un uomo di stampo aristocratico, ma con un forte orgoglio nazionalista: quando l’Impero britannico sembrava ancora nel pieno del suo fulgore, lui era già convinto che l’India poteva diventare una grande potenza, capace di svilupparsi con le proprie forze. Sotto gli inglesi costruì il primo impianto siderurgico del Paese, la prima centrale idroelettrica, la prima industria tessile, la prima compagnia di navigazione, il primo cementificio, la prima università scientifica (i suoi discendenti avrebbero proseguito nella vocazione pionieristica creando la prima banca, la prima compagnia aerea, il primo impianto petrolchimico, la prima fabbrica di automobili). J.N. Tata era anche un progressista di idee avanzate, capace di anticipare certe conquiste sociali dei "fabiani" inglesi (i padri del laburismo) in un Paese molto più arretrato della Gran Bretagna. […] Ma nella parabola dei Tata c’è anche una lunga fase di involuzione, in parallelo con l’"esperimento socialista" dei governi di Nehru e Indira Gandhi. Dopo l’Indipendenza il gruppo perse sia le linee aeree che le assicurazioni, nazionalizzate. Le sue dimensioni davano fastidio durante gli anni del flirt ideologico e diplomatico tra New Delhi e Mosca, e le aziende persero una guida unificante. Soprattutto, all’ombra del sistema del "raj" – una complessa impalcatura di lacci e lacciuoli, regolamentazioni amministrative e permessi – il gruppo Tata finì per addormentarsi sugli allori, protetto dalla concorrenza. La rinascita a partire dal 1991 ha seguito una logica capitalistica: l’azienda non ha esitato a far ricorso alle ristrutturazioni, dimezzando i dipendenti della siderurgia in dieci anni. È rimasto qualcosa, però, dello spirito originario. Nella ricerca del profitto Ratan Tata segue una "via indiana": lo attira la parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a Paesi emergenti come il suo, dove il grosso del mercato si situa a livelli di reddito minimi» (Federico Rampini) • «Nato in un ramo minore della dinastia Tata, Ratan da bambino subì l’onta di un tempestoso divorzio dei genitori, e la fuga della madre, ignominiosa in una società conservatrice e puritana. Fu adottato dallo zio, allora capostipite dell’azienda, noto con le iniziali J.R.D.» (Rampini). «Studiava arte e letteratura negli Stati Uniti, frequentava il bel mondo della cultura e incantava tutti con un inglese forbito. Ratan Tata […] non pareva destinato a raccogliere l’eredità di famiglia. L’economia – si diceva – non fa per lui: se ne stia nel suo dolce confino americano. Lo mandarono a chiamare per disperazione, quando l’impero creato nel 1868 da Jamsetji Tata minacciò il tracollo e all’orizzonte nessun manager si profilava all’altezza del miracolo. Così il pronipote del geniale fondatore (che era partito dal commercio tessile, spaziando in ogni campo) dopo la laurea in Architettura alla Cornell University cominciò da zero una nuova vita» (Piero Bianco). «Per molto tempo la sua indole anticonformista e innovativa venne castigata dagli insuccessi. Messo a gestire una piccola filiale di elettrodomestici (Nelco) nel 1971, Ratan avrebbe voluto diversificarla nell’elettronica, ma il management anziano optò per chiuderla. Stesso fiasco nel 1977 alla testa di Empress Mills, l’azienda tessile del gruppo. Ma quella era un’altra India, ancora a metà del guado fra il socialismo dirigista di Indira Gandhi e l’economia di mercato. La biografia di Tata incrocia miracolosamente l’alba della New India nel 1991: è l’anno delle liberalizzazioni con cui New Delhi si apre all’economia globale; è lo stesso anno in cui Ratan eredita dallo zio J.R.D. il comando del gruppo» (Rampini). «Nel 1991, quando diventa presidente, lancia una forte ristrutturazione – senza nemmeno un licenziamento, è l’orgogliosa rivendicazione – per trasformarsi da una conglomerata fatta a immagine e somiglianza del modello coloniale importato dai britannici nell’Ottocento a una moderna multinazionale diversificata. La Tata Consultancy Services, ramo di consulenza del gruppo, viene quotata. La Tata Motors va in Borsa a New York. Nel 2000 la svolta decisiva all’estero. Ratan Tata mette sul tavolo più di 400 milioni di dollari e compra la Tetley Tea, il secondo marchio britannico del settore. L’idea è semplice: perché limitarsi a vendere, dalle piantagioni Tata, le foglie di tè a chi poi farà la maggior parte dei profitti preparandole per il consumo e vendendole? […] Seguiranno […] camion, acciaio, telecomunicazioni, con l’acquisto del 46% del colosso locale Vsl. Anche nei confini di casa, infatti, la Tata non sta con le mani in mano: la Tata Motors, nata dalla vecchia Telco che fabbricava camion, ha l’obiettivo di riempire i garage in un Paese che si va rapidamente motorizzando» (Francesco Manacorda). «Mentre la presenza in patria di Tata si consolidava, le acquisizioni straniere iniziarono ad arrivare con cadenza impressionante dall’inizio degli anni Duemila. Tetley (tè, Gran Bretagna), Daewoo Motors (veicoli commerciali, Corea del Sud), Millenium Steel (acciaio, Thailandia), Jaguar e Land Rover (automobili, Gran Bretagna), Piaggio Aero Industries (aviazione, Italia), China Enterprise Communications (telecomunicazioni, Cina) sono solo una manciata tra le decine di acquisizioni Tata» (Matteo Miavaldi). Particolarmente importante, sia a livello simbolico sia sotto il profilo finanziario, fu, nel 2007, l’acquisizione delle acciaierie britanniche Corus, all’epoca la più grande operazione realizzata all’estero da un’impresa indiana. «Nel 1907 Jamsetji Tata, il fondatore della più grande dinastia industriale indiana, si candidò a fornire l’acciaio per la ferrovia costruita dal governo coloniale inglese. Sir Frederick Upcott, uno dei capi dell’amministrazione imperiale, trovò la pretesa così improbabile e presuntuosa che promise di “mangiare personalmente la prima rotaia prodotta da una fabbrica indiana”. Le cronache non raccontano se Sir Upcott dovette ingoiare almeno la sua superbia, ma quell’episodio è stato ricordato a Londra […] quando il discendente di Jamsetji, Ratan Tata, ha divorato d’un sol boccone l’ultima grande azienda siderurgica inglese, la Corus, staccando un simbolico assegno da 8,5 miliardi di euro. […] Tra i gioielli stranieri su cui Ratan allunga gli occhi dal 2007 c’è anche il gruppo Orient Express, i leggendari treni e hotel di lusso. Il management americano ha il cattivo gusto di rigettare la scalata considerando "squalificante" l’azionista indiano, che pure con la catena Taj gestisce alcuni degli hotel più lussuosi del pianeta. L’India intera si rivolta contro l’offesa, il governo di New Delhi denuncia la "discriminazione razziale", l’associazione confindustriale parla di "arroganza americana". Ratan Tata, che coltiva l’arte raffinata dell’understatement, liquida la reazione dell’Orient Express come "un infortunio maldestro"» (Rampini). «Con Fiat ha concluso nel 2006 un accordo per la produzione a Ranjangaon di vetture, motori (anche per Maruti Suzuki) e trasmissioni. Era prevista la distribuzione in India presso le concessionarie Tata dei modelli (Stilo, Palio, Punto, Linea ecc.) a marchio Fiat. Ma i risultati sotto il profilo commerciale non sono stati soddisfacenti, così Fiat nel 2012 ha “rivisto” l’accordo creando una società indipendente per la distribuzione, controllata dal Lingotto. La grande scommessa vinta da Ratan Tata è stata in realtà l’acquisizione dei brand Jaguar/Land Rover. Oggi sono gioielli della holding indiana, strappati all’ex colonizzatore britannico ed esibiti nel mondo come simbolo trionfale» (Bianco). Oltre a molti successi, la gestione di Tata annovera almeno un bruciante fallimento, legato al suo progetto della «one-lakh car», l’auto da centomila rupie (un prezzo, cioè, estremamente basso e accessibile), poi messa sul mercato col nome di Tata Nano. «Si chiama Nano il più grande flop dell’industria automobilistica indiana. Lanciata dal colosso Tata nel 2009 con grande enfasi, e presentata come l’“auto per il popolo meno cara al mondo” perché costava circa 1.500 dollari, non ha mai avuto successo. In India l’hanno comprata in pochi, l’esportazione è stata finora impossibile perché la citycar non ha mai superato i crash-test, essendo tra l’altro priva di airbag. […] Eppure la Nano era nata tra mille attenzioni, con l’intervento di un esercito di ingegneri specializzati, dopo uno studio attento della mobilità sociale indiana. Doveva diventare un modello invidiabile della capacità produttiva locale, il sogno accessibile per la classe medio-bassa. Se ne è parlato per 5 anni, prima dell’avvio produttivo condito da polemiche per gli espropri necessari a costruire i nuovi impianti di assemblaggio. Ma i numeri delle vendite non hanno mai raggiunto una soglia di soddisfazione, tantomeno di sostenibilità economica» (Bianco). Come da lui stesso pianificato con ampio anticipo, il 28 dicembre 2012, giorno del suo settantacinquesimo compleanno, «dopo 21 anni al timone di uno dei più grandi colossi industriali indiani (una holding di 100 società presenti in 80 Paesi che spazia in 8 settori strategici: dall’auto alla chimica, dalla siderurgia agli alberghi, dall’energia alla comunicazione con un fatturato di 100 miliardi di dollari), Ratan Tata […] è andato in pensione. Alla presidenza è stato nominato il primo manager esterno alla famiglia, Cyrus Mistry, 44 anni, figlio del costruttore irano-irlandese Pallonji Mistry (primo finanziatore privato del Gruppo). L’Agnelli indiano ha fatto lievitare l’impero Tata, cresciuto sotto la sua guida mediamente del 21,7% ogni anno: oggi [il 28 dicembre 2012 – ndr] ha dimensioni 51 volte superiori rispetto al 23 marzo 1991» (Bianco). Insoddisfatto dalla gestione del suo successore, il 24 ottobre 2016 Tata – rimasto il principale azionista privato del gruppo, nonché il presidente emerito di Tata Sons, la finanziaria proprietaria di Tata Group – fece licenziare Mistry, subentrandogli egli stesso in qualità di presidente ad interim, fino alla nomina del nuovo presidente, Natarajan Chandrasekaran, annunciata il 12 gennaio 2017. Mistry, però contestò aspramente la propria rimozione, e denunciò Tata all’autorità giudiziaria, «accusandolo […] di mala gestione e adombrando perfino la corruzione. […] Ratan il Vecchio sostiene che le accuse di Cyrus il Giovane siano motivate solo da “animosità” nei suoi confronti, e che l’etica del gruppo, noto anche per la sua filantropia, sia adesso “minacciata da chi è ben noto per non praticare quel che predica”. Mistry sostiene invece di essere stato cacciato per aver cercato di ridurre i 30 miliardi di debiti dell’impero che ha conquistato, è vero, i nobili marchi Jaguar e Land Rover, ma anche concepito quel flop di microcar che col senno di poi nessuno avrebbe dovuto chiamare, appunto, Nano. Per non parlare dei miliardi, forse 10, che le acciaierie perdono in Europa, a cominciare dall’Inghilterra, da dove Mistry voleva sloggiare. Non basta. Dicono che la vera colpa del primo dei non-Tata a sedere sul trono di famiglia (anche se sua sorella ha poi sposato un fratellastro di Ratan) sia stata provare a fare terra bruciata intorno agli amici del patriarca» (Angelo Aquaro). Nel luglio 2018 il processo è giunto alla sentenza di primo grado, favorevole a Tata. «La Corte ha stabilito che il licenziamento di Mistry è stato legittimo. E ha respinto pure le altre accuse mosse a Tata dal dirigente esautorato: aver interferito nella gestione della società, considerata uno dei pochi esempi di eccellenza manageriale in India, e aver corrotto dei funzionari pubblici, ombra inquietante sulla reputazione dell’imprenditore-filantropo. “Non è attraverso una cattiva gestione o processi non etici che il nostro gruppo è diventato quello che è”, ha potuto finalmente rivendicare Tata. Mistry ha annunciato che presenterà ricorso, con nuove prove delle interferenze subite. Possiede ancora una quota del 18% della holding Tata Sons, ma a questo punto pochi, dentro e fuori dall’impero, lo considerano una minaccia. Back to business: è tempo di tornare agli affari. E a dirigerli dal gennaio dello scorso anno c’è un nuovo manager, il 55enne Natarajan Chandrasekaran, […] il primo capo di Tata Sons a non essere imparentato con la famiglia, ma uno che si è guadagnato la fiducia del patriarca sul campo e che […] al timone non la sta tradendo. “Devo fermare le emorragie più grandi”, ha detto appena nominato, sbrogliando in rapida successione due partite decisive a lungo in sospeso. […] Molti però avvertono che è solo l’inizio: altri problemi strutturali saranno più difficili da affrontare. Intanto la complessità di un conglomerato che venti anni di gestione di Ratan Tata hanno ingrandito a dismisura: 700 mila dipendenti e oltre cento entità operative. La catena di controllo fa capo alla Tata Sons, società non quotata di cui l’anziano imprenditore controlla il 65% attraverso delle fondazioni, ma che ha partecipazioni dirette solo in tre delle 28 controllate quotate: una struttura assai poco trasparente che risale a prima dell’indipendenza indiana. L’altra eredità della campagna di espansione è il debito: delle dieci attività che fatturano di più, la metà ha chiuso il 2016 con un rapporto tra esposizione ed equity superiore al 100%. Per questo Chandrasekaran ha subito riportato il focus sui bilanci, nominando come direttore finanziario, posto vacante da anni, un ex manager di Merrill Lynch. […] Nella visione di Chandrasekaran tutte le attività dovrebbero essere organizzate in otto "cluster" omogenei, sfoltendo i rami secchi e investendo in quelli redditizi. Nel complesso, un deciso cambio di rotta rispetto all’espansione orchestrata tra gli anni ’90 e gli Zero da Ratan Tata. Il magnate lo accetterà? Ad aver acceso la faida con Mistry, dicono in molti, è stata anche la difficoltà del grande vecchio a passare davvero la mano. Il risultato è stata una guerra intestina che ha rischiato di rovinare sia la sua azienda che la sua reputazione. Tata ne è uscito riprendendo il controllo, ma alla soglia degli 80 anni, senza famiglia né eredi, la sua eredità è nelle mani di Chandrasekaran. Buone mani, a sentire lui» (Filippo Santelli) • «Un gruppo come Tata quando si allarga nel mondo conserva alcune peculiarità che lo differenziano da una multinazionale americana o tedesca. In ogni fase dell’espansione ha una particolare cura nell’accompagnare a mosse costose in Occidente altrettanti segnali di frugalità e di impegno a favore dei più poveri in patria. Negli stessi mesi in cui comprava la Jaguar, lanciava la […] Nano. Mentre rilanciava lo splendido Taj Mahal Hotel ristrutturato dopo l’attentato del 2008, annunciava la costruzione di alberghi super-economici da 20 dollari a notte per i tanti viaggiatori di commercio che girano per l’India. Mentre costruiva il super-computer di Pune da 30 milioni di dollari, lanciava un pacchetto software a basso costo che insegna agli adulti a leggere in 40 ore. Ancora: la Tata Consultancy Services ha prodotto un filtro per l’acqua pochissimo costoso che utilizza le bucce del riso decorticato, la Tata Steel sta sperimentando [nel 2011 – ndr] un prototipo di casa montabile da 500 dollari da vendere nei negozi, e così via» (Eugenio Occorsio). «Quando Tata lanciò la Nano, l’automobile meno cara di sempre, molti credettero che per l’India fosse l’alba della motorizzazione di massa. Ma fu un flop. Quando acquisì Jaguar e Land Rover, due marchi che da anni regalavano ariosi buchi di bilancio a chiunque li controllasse, la sua sembrava la follia di chi voleva a tutti i costi dimostrare qualcosa agli ex dominatori coloniali. E fu un successo. Sono questi due episodi che forse racchiudono al meglio la lezione che Ratan Tata lascia a chi voglia fare impresa in India. Il Paese – vasto, complesso, contraddittorio – resta un mistero insondabile anche per chi ci è nato. E pensare che per sedurre i suoi consumatori basti fare prodotti a buon mercato è un’illusione che rischia di costare cara» (Marco Masciaga) • «Riservato, schivo, celibe senza figli. […] Single per scelta, lavoratore instancabile, secondo le pochissime interviste rilasciate in oltre trent’anni di attività imprenditoriale ai massimi livelli la tentazione del matrimonio lo ha accarezzato “tre o quattro volte”. Ci è andato molto vicino negli Stati Uniti, ha raccontato alla Cnn, mentre studiava Architettura alla Cornell University. Ma poi arrivò la chiamata dall’India di zio J.R.D. Tata, presidente del gruppo, che voleva accanto a sé il suo brillante nipote educato nelle più prestigiose università americane. Era il 1962, India e Cina erano in guerra: la potenziale signora Tata non se la sentì. […] Ratan Tata ha […] una granitica fama di filantropo, anche grazie all’assetto etico che ha imposto al gruppo. Il 66 per cento delle azioni Tata sono controllate da fondazioni caritatevoli presiedute da uomini personalmente appuntati dal signor Tata. Significa che due terzi dei profitti di borsa vengono destinati a organizzazioni non governative e progetti attivi nel sociale, donazioni per la ricerca, ospedali, facendo di Ratan Tata il Bill Gates del subcontinente. Un esempio più unico che raro nella giungla dell’imprenditoria indiana. […] Pilota d’aviazione provetto, amante dei motori, […] Ratan Tata è l’uomo invisibile del jet set indiano. Allergico alle serate di gala e restio ad ostentare “la roba”, Ratan Tata si descrive come un uomo senza nemici, preoccupato non tanto di chiudere contratti miliardari ma, ha riportato l’Economist, di “andare a letto la sera e sapere di non aver fatto del male a nessuno”» (Miavaldi) • «Un animo democratico anima i Tata: il nonno di Ratan, a sua volta figlio del fondatore Jamsetji Tata, […] era amico e sodale di Gandhi. I rapporti con le maestranze sono tali che […] quando dovette licenziare 20 mila persone, nel 1992, assicurò comunque lo stipendio fino all’età della pensione. Certo, si obietterà, questo è possibile in India dove il lavoro costa 1,20 dollari l’ora; ma è uno di quei gesti che si ricordano» (Occorsio) • «Nella nostra famiglia abbiamo sempre creduto che la ricchezza prodotta andasse restituita al popolo. È uno dei nostri cardini di comportamento nei secoli. […] In questo modo c’è anche minore pressione sociale sulle aziende. E meno scioperi. C’è, insomma, anche un “plus” nell’agire così» (ad Alessandra Farkas).