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 2018  dicembre 27 Giovedì calendario

Intervista ad Andy Garcia

È il cubano espatriato più famoso d’America e tuttora acerrimo nemico dei Castro ("Finché non sarà morto l’ultimo dei Castro io a Cuba non ci torno, anche se sogno la mia amata terra", ha sempre detto), Andy Garcia, 62 anni, figlio dell’alta borghesia habanera, fuggì a Miami con la famiglia dopo la rivoluzione del 1959. L’amore per la sua terra lo esprime quando suona musica tradizionale cubana, danzón, mambo, rumba. Nella sua villa di Los Angeles si riuniscono luminari della musica e del jazz cubano come il leggendario trombettista Arturo Sandoval, suo amico fraterno, o lo scomparso Israel "Cachao" López, del cui revival negli anni 90 Garcia, suo produttore, fu l’artefice.
Come adesso lo è del connubio tra Sandoval e Clint Eastwood per il nuovo film di quest’ultimo, come regista e attore, Il corriere — The mule, in uscita in Italia il 7 febbraio, di cui Sandoval ha scritto la colonna sonora e nel quale Garcia recita il ruolo di un boss messicano che gestisce movimenti di chili di cocaina attraverso gli Usa. È la storia vera di un tranquillo vecchietto (Eastwood nel film), Earl Stone, che a 80 anni divenne il corriere più attivo del cartello di Sinaloa.
Padre di quattro figli, sposato da sempre con la sua prima fidanzata, Marivi, Garcia è più impegnato che mai. Candidato all’Oscar nel 1991 per Il padrino — parte III, lo abbiamo visto di recente nel seguito di Mamma Mia!, ha numerosi film in uscita nel 2019 ed è anche produttore esecutivo di una serie televisiva in via di sviluppo, Santurce.
Come è stato il set con Eastwood?
«Non avevo mai lavorato prima con lui, ma ci conosciamo bene da anni e giochiamo spesso a golf insieme. Quando il mio agente mi ha parlato del film sono stato io a suggerire un incontro. Anche perché il soggetto era strepitoso, una storia incredibile, e il pensiero che Eastwood avrebbe interpretato il vecchio corriere di droga mi pareva irresistibile».
Ancora spazia tra molti generi nelle vesti di regista.
«È vero, è difficile etichettarlo come regista, ma credo che lo abbia segnato il fatto di essere stato attore per decenni prima di dirigere. Ascolta tutti, è molto aperto. È un narratore ancora pieno del senso della meraviglia per le vicende umane, commedia o tragedia che sia. E poi ricordiamo che Clint, come me, è anche musicista, suona benissimo il piano, conosce il jazz, ha scritto spesso musiche per i suoi film, quindi c’è un che di melodico nei suoi film, un certo ritmo e un’armonia che ricordano uno spartito musicale, e i dialoghi richiamano la scansione delle battute sul pentagramma».
Parlando di musica: che ruolo ha avuto nel portare Sandoval dentro questo progetto come autore delle musiche?
«Ovviamente Clint conosceva Arturo, sia come compositore che come virtuoso della tromba, e come tutti gli intenditori di jazz lo venera come genio assoluto. Quando Clint mi ha chiesto cosa pensassi di Arturo come compositore, e come era stato lavorare con lui in un paio di film che avevo prodotto, l’ho immediatamente incoraggiato. È stato amore a prima vista, e alla fine Arturo ha realizzato tutta la colonna sonora».
Ed era presente anche lei.
«Sì. Siamo andati a registrare nello studio di Clint e della sua Malpaso Production, per due giorni, un giorno con un’orchestra sinfonica, e il secondo giorno con una big band.
Io sono stato sempre lì a seguire il tutto. Continuo a imparare. Sia da Arturo che da Clint».
Cosa l’ha colpita della storia del film?
«Il personaggio, davvero esistito, è perfetto per Clint, perché ha quel qualcosa di classico e iconico che gli calza a pennello. Se guardi i suoi film, sia le detective story che i western o i drammi contemporanei come Gran Torino, sono tutti con personaggi pieni di difetti, che hanno compiuto scelte sbagliate nella vita, ma nell’arco narrativo emerge l’uomo che cerca giustizia o redenzione. Questo è il tratto tipico di Eastwood come autore. La ricerca di quella cosa che potrebbe redimere gli errori del passato. Non siamo tutti così in fin dei conti?».
Come ha affrontato il suo personaggio, il boss del cartello Laton?
«Volevo evitare i cliché del personaggio che può ucciderti in ogni istante, anche perché le scene non erano scritte così. Nel film Clint mi ha lasciato improvvisare qui e là, come quando il vecchio viene a trovarmi nella mia villa e mi chiede se ho dovuto ammazzare molta gente per avere una casa così bella. E io gli dico "Sì, un sacco di gente". Ed è vero, questo personaggio lo dice come se fosse uno scherzo di poco conto, una battuta. Ma non ne ho voluto fare un assassino senza anima, uno spietato e basta».
Eastwood con "Il corriere" intende parlare del problema della droga che entra in America dal Messico e della violenza dei cartelli e del muro di Trump?
«Non ho mai discusso di queste cose con lui, non credo che volesse fare un film con un messaggio politico. Lui è quello che dice sempre: "Se vuoi mandare un messaggio usa la FedEx... non il cinema».
Ma è inevitabile che il film parli di tematiche di stretta attualità».