Sappiamo che disse, all’indomani del massacro di piazza Loggia: «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Dopo la messa fuori legge di Ordine Nuovo per decreto nel 1973, a seguito di un processo per ricostituzione del partito fascista (che costò la vita, tre anni dopo, al magistrato Vittorio Occorsio che vi sostenne la pubblica accusa), Maggi fu il punto di riferimento della riorganizzazione e dell’azione eversiva di un manipolo di estremisti e terroristi neri pronti a tutto, nel tentativo, come si espresse uno di loro, di «far saltare il tavolo», cioè provocare una svolta autoritaria nel Paese. Una cospicua mole di note informative, incrociate con alcune intercettazioni, l’ha infine inchiodato, insieme all’allora giovane camerata Maurizio Tramonte, che era al contempo informatore del Sid, il servizio segreto che svolse, in quella strage come nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, un’opera massiccia di depistaggio delle indagini, contribuendo a garantire ai terroristi neri l’impunità. Sebbene il nome di Maggi, col numero di telefono, affiori quasi subito tra le carte sequestrate a Franco Freda, neonazista padovano a lungo imputato, poi assolto, per piazza Fontana (di cui un’altra sentenza di Cassazione nel 2005 ha certificato, seppure in chiave meramente storica, il coinvolgimento nella strage), grazie alla cintura di protezione dei depistaggi, resta fuori dalle inchieste per i massacri. Fino alla svolta investigativa degli anni Novanta, quando "il dottore" finisce sul banco degli imputati attraverso la chiamata in correo di un ex "quadro coperto" di Ordine Nuovo, l’esperto di armi ed esplosivi Carlo Digilio.
Condannato in primo grado per piazza Fontana, fu assolto nei gradi successivi insieme ai coimputati ordinovisti, tra cui Delfo Zorzi, che di segreti deve serbarne altrettanti e vive sereno da cittadino giapponese sotto il nome di Hagen Roy. Quanto alle ragioni del silenzio di Maggi, resta agli atti un’intercettazione a casa del dottore: «È Zorzi che dà…» — i soldi, s’intende. Sommo sfregio, nel 2010 Maggi pubblicò un’autobiografia dal titolo "L’ultima vittima di piazza Fontana", vittima, a suo dire, di una persecuzione giudiziaria basata su false accuse (una retorica evergreen nel mondo del terrorismo nero: forse s’è ispirato a Maggi, il Ciavardini, quando s’è qualificato «l’ottantaseiesima vittima della strage di Bologna», per cui è stato condannato in via definitiva). Nel 2010 incassava un’assoluzione anche nel giudizio di primo grado del terzo processo per la strage di Brescia. Poi la ruota ha girato.
Maggi aveva 82 anni ed era malato da tempo. La sua difesa aveva tentato in ogni modo di sostenere la tesi della sua incapacità a sostenere il processo, per sottrarlo alla giustizia. Dopo la condanna definitiva, le parti civili e i loro legali commentarono con favore il fatto che una giustizia capace di pietas non avrebbe consegnato al carcere un ottantenne invalido.
Quella pietas che Maggi e gli altri stragisti non ebbero mai per le loro vittime.