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A leggere le ultime dichiarazioni su editoria e giornali, pare proprio che il ministro dell’Interno Matteo Salvini abbia sposato in pieno la linea dell’alleato grillino Luigi Di Maio. Quella che si pone, come obiettivo, l’abolizione dei contributi pubblici a sostegno di uno dei pilastri delle compiute democrazie occidentali, e cioè il pluralismo dell’informazione.
Dice dunque Salvini, a proposito di Avvenire, testata da sempre critica nei confronti delle sue politiche sull’immigrazione: «Se il giornale dei vescovi prende 6 milioni di contributi dai cittadini italiani, penso che una parte di quei soldi possano essere spesi per chi è davvero in difficoltà».
Posizione assai singolare, visto che la sua Radio Padania, non più tardi del gennaio di quest’anno, ha fatto domanda al ministero dello Sviluppo Economico per accedere al fondo per l’editoria per l’anno 2017. E ancor più singolare a rileggere l’intera storia dell’emittente della Lega che per più di dieci anni, proprio mentre il giornalista Matteo Salvini al grido di «buona Padania a tutti» ne determinava le sorti da direttore responsabile, si è spacciata per “radio comunitaria”, prendendo dallo Stato italiano milioni di euro (e frequenze) che non le spettavano. Alla faccia di chi era, ed ancora è, «davvero in difficoltà».
Il suk delle frequenze
L’assalto al denaro pubblico da parte dei leghisti per mezzo di Radio Padania ha una data di inizio. Il 28 dicembre 2001. Sono gli anni ruggenti del secondo governo Berlusconi e del contratto con gli italiani firmato dal “notaio” Vespa. Quel giorno un parlamentare del gruppo “Lega Nord e Autonomie”, Davide Carlo Caparini, presenta e fa approvare un emendamento alla legge Finanziaria apparentemente innocuo e di natura tecnica: stabilisce che i soggetti titolari di «concessione radiofonica comunitaria in ambito nazionale» sono autorizzati ad attivare nuovi impianti sino al raggiungimento di almeno il 60 per cento della copertura nazionale. «Decorsi i novanta giorni dalla comunicazione di attivazione di tali impianti la frequenza si intende autorizzata». In realtà, è una norma “ad aziendam”. In Italia, infatti, in quel momento ci sono solo due emittenti comunitarie: Radio Maria e Radio Padania (di cui, incidentalmente, l’onorevole Caparini era editore).
Dal giorno dopo, Radio Padania lancia un’aggressiva campagna di espansione. Occupa frequenze in giro per l’Italia (soprattutto in Calabria e in Campania) e vi trasmette i propri programmi per i novanta giorni necessari ad acquisire a titolo gratuito le licenze dal governo. Una volta ottenute, le vende al miglior offerente oppure le scambia con altre frequenze, senza minimamente preoccuparsi di usurpare le piccole radio locali che trasmettevano su quegli stessi spazi dell’etere.
Nel giro di pochi anni, Radio Padania ripete il giochino centinaia di volte, finendo spesso anche al centro di polemiche imbarazzanti. Come quando il Carroccio occupa un canale ad Alesano (Lecce). È il 2011 e Salvini in persona deve sperticarsi per giustificare la manovra: «Simpatizziamo per il secessionismo salentino», dice. In realtà la solita operazione. Una delle tante che negli anni arricchiscono le casse di via Bellerio e quelle degli amici: quasi tutte le frequenze acquisite gratuitamente sono state infatti rivendute a R101 del gruppo Mondadori e a Rtl 102.5 dell’imprenditore calabro-lombardo Lorenzo Suraci. Un nome che conviene tenere a mente.
Quasi un milione l’anno
Sempre operando nell’ambito di un evidente conflitto di interessi, l’onorevole editore Caparini fa approvare nel 2004 un altro emendamento cruciale, che regala un contributo annuale di un milione di euro circa alle radio comunitarie di interesse nazionale. Sempre le due di prima. Puntuali, dal 2003 al 2015, entrano così nelle casse di Radio Padania i pagamenti del Mise: gli importi variano da 840.000 euro a 320.000 euro, a seconda delle annualità. E sarebbero continuati a entrare se l’avvocatura dello Stato nel 2014 non avesse destato il ministero dal suo più che decennale torpore, facendogli notare che il “giochino” era perverso e non poteva andare avanti. Così, con una circolare del 7 agosto del 2014, il Mise impedisce ogni nuova occupazione di frequenza.
L’anno successivo la Corte dei Conti chiude definitivamente la vicenda, spiegando come tutti quei finanziamenti - nonché la
Grazie a una legge varata in conflitto di interessi ha per anni acquisito frequenze per poi rivenderle ai privati. E ora torna a battere cassa allo Stato
facoltà di effettuare la compravendita delle frequenze erano del tutto indebiti per Radio Padania, per il semplice motivo che l’emittente non aveva copertura nazionale. Il segnale analogico leghista era diffuso soltanto in nove regioni (Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Sardegna), mentre nel resto d’Italia bisognava fare affidamento sul segnale digitale del consorzio Eurodab. La Corte dei Conti, nel riconoscere insussistenti i presupposti del contributo fino ad allora ricevuto da Radio Padania, aveva chiesto al Mise di valutare anche la restituzione dei soldi. Sarebbe stato un colpo durissimo per le finanze della Lega, ma la mediazione politica e ministeriale, e gli interessi in gioco, hanno sancito una sanatoria per il pregresso.
La pacchia è finita
Dunque, improvvisamente, Radio Padania non è più la gallina dalle uova d’oro. Ma una zavorra, sotto la lente della magistratura contabile, dell’avvocatura dello stato, degli ispettori del ministero, della stampa. La Lega è uscita da poco più di un anno dalla fase di transizione Bossi-Maroni, dopo gli imbarazzi delle inchieste milanesi sull’ex tesoriere Belsito. Al comando ora c’è Salvini che ha convertito il suo amore per l’etere in una passione sfrenata per i social. Anche il motto cambia, dal «buon giorno Padania» gridato agli ascoltatori della sua trasmissione “a microfoni aperti” si passa al ben più mesto «di danè ghe n’è minga» del ragioniere. Il futuro Capitano dà ordine di smobilitare. Urgentemente.
Dismettere, cedere. Non tanto la radio in sé, quanto le sue frequenze (136 in tutto) e gli impianti. La modalità un po’ goffa dell’operazione tradisce tutta la fretta della Lega. Il problema principale, trovare un acquirente, viene risolto in un baleno. Proprio grazie a Suraci, l’imprenditore di Rtl 102,5 con cui erano già stati fatti parecchi affari ai tempi del suk delle frequenze. Il segnale di Radio Padania illumina una grossa fetta del Paese e lui non vede l’ora.
Il resto è invece un po’ più complicato. Dopo l’intervento del Mise, non è più possibile per una radio comunitaria vendere frequenze a una radio commerciale. Così dopo un primo tentativo fallito proprio per l’opposizione del ministero, Suraci crea ad hoc l’Acrc, Associazione culturale radiofonica comunitaria (la sede legale, in via Scotti 11 a Bergamo, è la stessa di Rtl 102.5) con la quale finalizza l’operazione. Per 2,1 milioni di euro.
Nuova radio, nuovi contributi
Le frequenze e gli impianti ceduti a Suraci diventano così l’attuale Radio Freccia mentre Radio Padania, amputata di gran parte delle sue strutture, vira verso un netto ridimensionamento. E senza più contributi pubblici, dopo vent’anni di trasmissioni in Fm, diventa una web radio. Oggi i suoi programmi, in diretta, si possono ascoltare solo su Internet e grazie alla frequenza digitale in Dab. È di proprietà di una Cooperativa con sede a Monza, ha 8 dipendenti (erano 10 nel 2016), di cui tre giornalisti (più uno stagista).
Trasmette ancora dalla sede della Lega in via Carlo Bellerio a Milano. A Radio Padania sarebbero finiti, secondo la ricostruzione dei magistrati di Roma, una parte dei 250.000 euro che il costruttore romano Luca Parnasi ha versato alla fondazione Più Voci del tesoriere della Lega Giulio Centemero (per questo indagato).
Sempre in cerca di denaro per rimanere a galla, gli amministratori della Cooperativa nel gennaio scorso hanno fatto domanda per accedere ai contributi all’editoria del “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”, ripartito tra la quota destinata alle imprese editrici di giornali e periodici (gestita dalla presidenza del Consiglio e che il Movimento 5 Stelle sta provando ad abolire con la legge di Stabilità) e la quota circa 50 milioni di euro - per emittenti radio e televisioni locali in capo al Mise. Quest’ultima, “dimenticata” dalla scure dell’emendamento grillino, viene erogata in base ad alcuni parametri, tra cui ascolti, dipendenti, fatturato.
Per le radio locali, nel 2016, è stato concesso da un massimo di 610.000 euro per Radio Popolare a un minimo di 1.127 euro di Radio Incontro. «Per Radio Padania spiega il presidente della Cooperativa, Davide Franzini - il contributo per il 2017, se ci verrà concesso dal Mise, sarà di non oltre 5-6 mila euro». Una cifra modesta che Radio Padania ha tutto il diritto di chiedere. Ma è, né più né meno, un contributo all’editoria che serve per garantire il pluralismo dell’informazione.
Un valore disconosciuto dal ministro Di Maio e, solo ora, abiurato dallo stesso Salvini.