Corriere della Sera, 27 dicembre 2018
De Chirico, vent’anni di lettere poco metafisiche
Senza il permesso dei loro figli, certe madri bisogna lasciarle in pace. Non ci si può rivolgere loro neppure per lettera. Diversamente, si rischia persino di essere mollate, magari qualche giorno dopo il matrimonio. È avvenuto oggi? No. Nel 1930. Protagonisti della comparsata: la trentaseienne Raissa Gurievic (1894-1979) e il quarantaduenne Giorgio de Chirico (1888-1978). Il pictor optimus incontra a Roma la ballerina russa – attrice nel Teatro degli Undici di Luigi Pirandello e moglie del coreografo e regista teatrale Georgij Kroll – nel 1925, mentre la donna interpreta il personaggio principale della tragedia La morte di Niobe di Alberto Savinio. È amore a prima vista: «Mia grande, pura, eterna amica, questa sera rientrando ho trovato due vostre lettere. Belle e tristi come voi. Ora queste due lettere sono piegate sul mio cuore, angelo mio, sono coricato, ho lavorato tutto il giorno pensando a voi e ora dopo avere letto le vostre lettere! Mia divina amica, mia cara bambina (…), io sono qui sottomesso ai vostri ordini, pronto a morire per voi, a donarvi non solo il mio lavoro, il mio amore, la mia amicizia, ma il mio sangue se ne aveste bisogno (…). Ora leggerò Tristano e Isotta , poi dormirò. Vi scriverò tutti i giorni. Vostro sino alla morte, pronto a tutto per voi, G. de Chirico» (Roma, martedì ore 10, 28 luglio 1925). Pronto a morire ma non a sopportare che Raissa possa scrivere a sua madre, Gemma Cervetto.
La relazione dura 5 anni, ma la lettera manda a monte il rapporto fra i due. Nondimeno, prima di andarsene, il pittore la sposa a Parigi (lei aveva già divorziato da Kroll); ma solo per assicurarle di che vivere.
Prima di Raissa, Giorgio de Chirico dal 1917 al 1919, ha una relazione con la ferrarese Antonia Bolognesi (1896-1976), protagonista del dipinto Alceste. Quando l’artista, durante il servizio militare, viene trasferito a Roma, come scritturale («Le autorità militari, dopo la disfatta dell’esercito austro-ungarico, giudicarono che la mia presenza nella città degli Estensi non era più indispensabile») le invia una missiva quasi tutti i giorni: ne rimangono un centinaio.
A Raissa, succede la rumena Cornelia Silbermann (1904-?). Una vicenda tormentatissima. «Sono le tre e mezza; e non riesco a dormire; ho riacceso la lampada e guardato la vostra fotografia. Eppure avrei talmente bisogno di dormire! (…) Avete ragione; bisogna che vi veda meno, che pensi meno a voi, adesso che si è ancora in tempo; dopo potrebbe essere troppo tardi, perché forse voi non mi amerete mai» (Parigi, 16 ottobre 1929), scrive alla «cara amica che si chiama Cornelia come la madre dei Gracchi».
Dopo Cornelia, verrà la polacca Isabella (seconda moglie): tutt’e tre, comunque, provenienti da Paesi dell’Est.
Le missive citate fanno parte delle Lettere 1909-1929 di Giorgio de Chirico (Silvana editoriale), pubblicate per i quarant’anni dalla morte dell’artista, a cura di Elena Pontiggia. Fuori data, una letterina per le feste pasquali, accompagnata da un disegno, di Giorgio bambino (7 anni) al padre, barone Evaristo (1841-1905), che morirà circa un mese dopo.
Il carteggio (che comprende 463 fra lettere, cartoline postali, messaggi, ecc.), introdotto da Paolo Picozza, presidente della Fondazione de Chirico, prende in considerazione solo un ventennio. Dal 1909 all’anno della pubblicazione dell’Hebdòmeros. Le peintre et son génie chez l’écrivain, uscito in francese a Parigi. Coniato da de Chirico «sulla base del lessico greco e neogreco, composto da hébdomos e mera (= emera) – spiega Roberta Delli Briscoli – ha il significato complessivo di “uomo del settimo giorno”, con un evidente rinvio al dio Apollo, che, secondo la tradizione antica, era nato il settimo giorno del mese».
A parte una ventina di lettere inedite (a Gala Éluard, a Papini) tutte le altre sono già apparse su libri e riviste. Il merito di Elena Pontiggia è anche quello di averle riunite organicamente in modo da dare una visione esaustiva di un periodo particolarmente felice (sul piano artistico) del pictor optimus e dei suoi rapporti con letterati, artisti e mercanti (Paul Guillaume, Soffici, Apollinaire, Tzara, Carrà, Papini, Raimondi, De Pisis, Vallecchi, Breton, Léonce Rosenberg, Éluard, Giovanni Scheiwiller, Van Doesburg, Diaghilev ed altri) tra Volos, Atene, Milano, Firenze, Parigi, Ferrara e Roma.
Emerge un de Chirico dalle mille sfaccettature, la sua incapacità di sopportare le fatiche della guerra, l’invenzione della Metafisica, l’antipatia per lo «pseudo-demoniaco Picasso e il suo stato maggiore di cretini idrocefali», e così via. Da qui, una sorta di «viaggio di sola andata» – conclude la Pontiggia – di un artista che, con Boccioni, è «il più studiato degli artisti italiani del Novecento, ma resta, come la sua opera, il più enigmatico».