Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 27 Giovedì calendario

Nel cubo che riflette il deserto l’Arabia Saudita attende Bocelli

Ci risiamo con gli italiani che vanno in giro per il mondo a fare spettacolo e miracol mostrare. Chi ha visto alla Scala o in tivù l’Attila di Sant’Ambroeus avrà notato anche le sue sontuose scenografie, ponti altissimi, iscrizioni romane e banchetti un po’ bordelleschi: erano opera di Giò Forma, nome di uno studio milanese uno e trino perché formato dalla pittrice Cristiana Picco, dall’architetto Claudio Santucci e dal designer Florian Boje, che per inciso è italiano solo d’importazione, da Amburgo, ed è marito della pittrice (e qui pare che fra moglie e marito si possa mettere il dito della professione, «perché - racconta lui - sono 27 anni che lavoriamo insieme e funziona ancora benissimo»). I Giò Forma, in realtà, fanno di tutto e di più: dal palco di Vasco a quello del «Jova beach», il tour balneare prossimo venturo di Jovanotti, dall’Albero della vita di Expo alla sfilata di Armani nell’hangar di Linate, dall’opera al «Lumen», il museo della fotografia di montagna sopra Brunico, insomma tutto quello che fa spettacolo.
L’ultima impresa, però, è decisamente fuori del comune e anche un po’ fuori dal mondo: in Arabia Saudita, a 300 chilometri da Medina, in mezzo al magnifico nulla di un deserto spettacolare («Il Grand Canyon al confronto è nulla», sempre Boje), c’è Al-Ula, l’unico sito Unesco del Paese, dove i nabatei scavarono le loro tombe direttamente nelle rocce. Visto che in Arabia hanno capito che in futuro non di solo petrolio potranno vivere, hanno deciso di trasformarlo in un luogo turistico. E qui entra in scena il trio delle meraviglie che, insieme agli ingegneri di Black Engineering, ci hanno costruito il «Maraya», un cubo di specchi che è contemporaneamente luogo di spettacolo e di esposizione, palcoscenico e galleria e installazione di Land Art. «Maraya» in arabo vuol dire riflessione o specchio: infatti il cubo riflette il paesaggio che c’è intorno. 
Tutto, in teoria, è temporaneo: il cubone dovrebbe restare lì per quattro mesi, in tempo per ospitare delle mostre virtuali (curiosamente, adesso tocca a Van Gogh) e un festival musicale, «Winter at Tandora», dove arriva un po’ di tutto purché sia star, da quelle della musica araba tradizionale al pianista Lang Lang o ad Andrea Bocelli, vabbé. Però gli specchi sono tanto piaciuti che si pensa di lasciarli lì, tipo la Tour Eiffel che sopravvive all’Esposizione universale per la quale era stata costruita (come l’Albero della Vita, a ben pensarci...). «Ancora non sappiamo, decideranno i sauditi - spiega Boje -. Noi siamo rimasti affascinati da un Paese in rapida trasformazione, dove mentre eravamo lì abbiamo visto guidare la prima donna», anche se, bisogna aggiungere, l’affare Khashoggi ha dato un colpo all’immagine del nuovo corso saudita. «Il Paese non ha mai avuto turismo, questo è un esperimento, però è affascinante vedere come per la prima volta raccontino la loro storia. In fin dei conti è quello che facciamo anche noi: cercare la storia per farla diventare materia».
Appunto. E qui bisogna chiedere a questi visionari dell’immagine cosa si considerino, se architetti o scenografi. «Siamo degli ibridi. Ma non è una novità: ci rifacciamo alla grande tradizione italiana degli architetti-scenografi, quelli che progettavano il teatro ma anche lo spettacolo che avrebbe ospitato», insomma i Galli Bibiena, i Torelli, i Vigarani, «lo stesso Bernini», azzarda Boje, e in effetti il Sommo non disdegnava di disegnare perfino i fuochi d’artificio. Non a caso, i Giò Forma si dedicano molto all’opera lirica, il primo spettacolo multimediale e globale mai esistito e tuttora quello di maggior successo, Gesamtkunstwerk, l’arte che contiene e contamina tutte le arti. 
E che adesso sta conquistando anche questo pezzo di mondo, con teatri aperti a Muscat, in Oman («Ci torneremo con Lakmé, sempre con la regia di Davide Livermore»), a Dubai, ad Abu Dhabi. E in Arabia? «Per ora di teatri non ce ne sono, ma forse l’idea si sta facendo strada. Scommetto che, se ci arriverà il teatro occidentale, ci arriverà sotto forma di teatro musicale. L’opera è più difficile da fare ma più facile da capire. Insomma, universale com’è la musica». Magari iniziando da un cubo hi-tech dove si specchiano le dune del deserto.