il Giornale, 27 dicembre 2018
In morte di Sandra Verusio
Poiché aveva scelto lei di essere una figura pubblica insultante e offensiva, non saremo così ipocriti da risparmiarla soltanto perché è morta. È morta infatti una delle più grandi stronze di sinistra: Sandra Verusio, il cui salotto miliardario era il cimitero degli eleganti, il luogo in cui si svolgevano riti ossessivi contro Berlusconi e i berlusconiani, il luogo in cui io stesso conquistai la laurea di «non esistente», quando nel suo salotto mi fu impartita la grottesca condanna del «cono d’ombra».
È morta, e va bene, pace all’anima sua. Ma con lei muore non un centro culturale, non un luogo sacro in cui si sono sviluppate le arti o il pensiero, ma il sistema del pettegolezzo autopromosso, l’alterigia, lo snobismo dei radical chic a livello di shock, anzi di sciocchezzaio. Un giorno Eugenio Scalfari, suo intensissimo amico e compare di alterigie, mi portò da lei, come per un rito di iniziazione. C’erano Alberto Ronchey, Giovanni Spadolini (uno degli uomini più fatui e pieni di sé di tutti i tempi) e una moltitudine di figure dell’Ade, oggi per lo più stramorte con pochi rimpianti. Fui scrutato, vagliato e messo in sospensione. Questa gente sembrava la copia grottesca dei satanisti di Rosemary’s Baby, il film di Roman Polanski in cui Mia Farrow scopre di avere concepito un bimbo col diavolo. La Verusio non aveva nulla di diabolico, ma tutta la scimmiottatura lo era. La sua vita è stata quella di una donna dotata, ai bei tempi, di un rovente sex appeal che le permetteva predare maschi come un’ape regina. Soltanto in questo somigliava alla Madame de Stael, intellettuale antinapoleonica, il cui motto era: «In fondo perché no, agli uomini piace tanto e a noi non costa nulla». Il suo salotto era infatti un caravanserraglio di vanità, gelosie, rabbie, carriere, amori e superbie. Soprattutto superbie.
Il suo pregiudizio razziale era quello che lei stessa dichiarava: «Non posso avere a che fare con gente di destra, è più forte di me». Non capiva la differenza che esiste fra un liberale, un comunista e un fascista e pensava che fossero i personaggi di una barzelletta. E in effetti aveva limitato il perimetro del suo padiglione provinciale a una dimensione parallela ma non diversa da quella dei cafoni Casamonica: altri sfarzi, altre rabbie e desiderio di dominio, senza l’onestà ruspante dei burini con i rubinetti d’oro. La ricordo, faccia a faccia, lei con il suo nasino rifattissimo e l’occhio di chi non riesce a valutare le persone per quel che pensano, ma soltanto dall’etichetta dei vestiti che portano e del partito che votano. Sarebbe stata del tutto insignificante, e non metterebbe conto parlarne se un ambiente di persone presuntuosissime non l’avesse scelta come sponsor. Quasi tutti coloro che la frequentavano e che avevano l’età, come Eugenio Scalfari, non erano state fasciste ma per loro onesta ammissione – fascistissime, entusiaste fino al delirio del fascismo e del duce. Poi avevano cambiato la vela orientandola ai numerosi nuovi venti, trasmigrando di partito in partito, da ideologia a ideologia e chiamando questa duttilità morale, col sinistro nome di libertinaggio politico.
In effetti nel suo salotto aristocratico, era marchesa e ci teneva, si celebrava il continuo disprezzo per la borghesia, per l’homo faber, per l’Italia milanese e in particolare, ovviamente per il leader di Forza Italia. Quando io, dopo aver mandato all’aria i piani di quello stesso che voleva rimuovere Cossiga dal Quirinale con la camicia di forza, passai per giunta nelle file berlusconiane, subii un ridicolo processo in contumacia nel salottone vellutato dove fui dichiarato formalmente non più vivo. Da allora assistei al curioso fenomeno della gente, che conoscevo e ritenevo più o meno amica, che cambiava marciapiede quando mi vedeva per strada. Il verusismo non agiva in modo molto lontano dall’antisemitismo razzista: là si marchiava a fuoco chi «portava i calzoni corti» (metafora per persone inguardabili, non menzionabili) e li si dichiarava non più visibili. Invece, sono bastati pochi tristi anni di storia per vedere che il verusismo ha reso invisibile e davvero non più esistenti in vita i suoi adepti. Ecco forse perché Sandra Verusio, con una solitaria prova di buon gusto, ha voluto uscire di scena. Peccato. Avremmo preferito che vivesse molto più a lungo per provare rimorso per i danni che lei e il suo salotto hanno causato all’Italia.