La Stampa, 24 dicembre 2018
Il 42% delle centrali a carbone nel mondo è in perdita
Prima è stato il volano che ha alimentato lo sviluppo industriale, poi ha presentato il conto portando il Pianeta sull’orlo di un catastrofico cambiamento climatico. È il carbone. Ma ora emerge un elemento in più: due quinti delle centrali del mondo alimentate grazie al combustibile fossile producono in perdita.
Lo sostiene uno studio del think tank britannico sulla transizione energetica Carbon Tracker, che ha realizzato la prima analisi globale sulla profittabilità di 6.685 centrali a carbone, che rappresentano il 95% di tutta la capacità operativa (1.900 GW) e il 90% di quella in costruzione (220 GW). Secondo la ricerca, il 42% degli impianti a livello mondiale non sono più profittevoli. E nel 2040 questa percentuale potrebbe raggiungere il 72%. Carbon Tracker calcola che costi di più gestire il 35% delle centrali a carbone – la percentuale sale al 96% nel 2030 – piuttosto che costruire nuovi impianti basati sulle rinnovabili.
Eppure, tre anni dopo l’accordo di Parigi, il carbone è tutt’altro che abbandonato: sebbene il suo utilizzo sia destinato a decrescere in tutto il mondo, secondo l’ultima valutazione dell’Agenzia internazionale per l’energia, la dinamica non sta avvenendo abbastanza velocemente per riuscire a evitare (o quantomeno rallentare) la trasformazione climatica in atto.
Quindi, perché è così difficile rinunciare al carbone? Oltre ad essere il più inquinante dei combustibili fossili, è anche una fonte economica e abbondante. E poi l ’ industria carbonifera è potente e spesso sussidiata dai governi nazionali: le centrali rappresentano una tentazione per la classe politica che vede nel fossile un modo per fornire energia a basso costo e cercare cos ì di mantenere il proprio potere.
Ecco perché resta la principale fonte per generare elettricit à in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, il carbone costituisce poco meno di un terzo della produzione totale di energia. In Germania il 40% di quella elettrica è fornita grazie al combustibile fossile. Per non parlare della Polonia, primo produttore e consumatore in Europa.
Ma la vera battaglia viene combattuta in Asia, che rappresenta la metà della popolazione mondiale e, al contempo, i tre quarti del consumo globale di carbone. È in quel continente, inoltre, che sono in costruzione o in fase di progettazione pi ù di tre quarti (oltre 1.200 secondo Urgewald) delle nuove centrali nel mondo. L’Indonesia sta incrementando l’estrazione dalla crosta terrestre, il Vietnam sta gettando le basi per nuovi impianti e il Giappone, in seguito al disastro nucleare del 2011, ha ben pensato di tornare a utilizzare massicciamente il combustibile fossile. Anche l ’ India non è da meno. La vasta rete ferroviaria, nel paese da 1,4 miliardi di persone, è alimentata proprio grazie al carbone, che rappresenta il 58% del mix energetico del Subcontinente.
Il più grande divoratore è, tuttavia, un altro: la Cina consuma la met à del carbone prodotto a livello globale. Una mega-economia che dà lavoro a più di 4,3 milioni di cinesi. Dal 2002, il contributo di Pechino ha fatto sì che la produzione mondiale aumentasse del 40%. Un’enormità raggiunta in soli 16 anni. E, nonostante la Cina sia ora anche il leader del Pianeta nell’energia solare ed eolica, non ha rinunciato a costruire nuove centrali. Le ha solo posticipate. L’industria carbonifera cinese sta anche cercando, dal Kenya al Pakistan, nuovi mercati e sta costruendo impianti a carbone in 17 paesi, rileva Urgewald. Anche il principale rivale asiatico, il Giappone, è parte integrante di questa logica: quasi il 60% dei progetti sviluppati da società nipponiche sono realizzati all’estero.
È pertanto il sud-est asiatico una delle ultime frontiere del mondo per l’espansione del carbone. Ma cambiare direzione è ancora possibile.