La Lettura, 23 dicembre 2018
L’uomo più potente dell’arte
Chissà se Gilbert & George lo sanno. Chissà se i due ragazzi terribili della Brit Art degli anni Settanta hanno mai immaginato che se oggi il cinquantaquattrenne David Zwirner è – sostiene la rivista «ArtReview» – l’uomo più potente del mondo dell’arte, è tutta colpa loro. E, in particolare, della loro Singing Sculpture , performance datata 1969 che vedeva i due artisti in piedi sopra un tavolo (verniciati d’oro o d’argento a seconda dell’occasione) cantare e muoversi come automi al ritmo di Underneath the Arches, canzone tradizionale che voleva celebrare la libertà dei vagabondi. «Non ricordo bene l’anno, ma di certo ero ancora in Germania, forse a Colonia, dove sono nato, poteva essere il Museum Ludwig; di certo ero molto piccolo – racconta David Zwirner a “la Lettura” – così piccolo che mio padre mi aveva caricato sulle spalle per farmi vedere due strani signori che giocavano a fare le marionette canterine: sembravano giocattoli, invece era arte contemporanea, ma io non potevo ancora saperlo; sapevo soltanto che quello che stavo vedendo mi piaceva moltissimo».
Oggi David Zwirner è a capo di un impero di cinque gallerie (tre nell’Upper Side di New York, una a Londra, un’altra appena inaugurata a Hong Kong), un tycoon dell’arte contemporanea che per il suo prossimo spazio ha scelto Renzo Piano come progettista: un luogo da 50 milioni di dollari per cinquemila metri quadrati divisi su cinque piani sulla West 21st Street a Chelsea, dove già si trovano due delle tre gallerie newyorkesi di Zwirner, pronto nel 2020 («Al massimo nel 2021»). Nel suo parco-artisti ci sono stelle come Marlene Dumas, Dan Flavin, Isa Genzken, Donald Judd, Jeff Koons, Yayoi Kusama, Chris Ofili e personaggi ancora tutti da scoprire come Jockum Nordström, Josh Smith e Ruth Asawa. Oltre a quel Franz West con cui, di fatto, David ha iniziato la propria attività di gallerista venticinque anni fa in un piccolo spazio al 43 di Green Street a Soho, New York, «che voleva proporre arte senza compromessi» (tra i suoi primi acquisti le foto di architettura di Bernd e Hilla Becher). È un rapporto molto profondo quello con West, quasi familiare, rafforzato in occasione delle celebrazioni per il venticinquennale della galleria: un rapporto testimoniato da una foto del 1995 che mostra David con la moglie Monica Seeman (stilista e co-fondatrice della MZ Wallace, società che produce accessori di moda) e i figli Marlene e Lucas (direttore responsabile della David Zwirner Books) mentre, nel corso di un’inaugurazione, giocano con una scultura di Franz West, Passtücke (Adaptives). P roprio come David aveva a suo tempo giocato con le Singing Sculpture di Gilbert & George. Altrettanto stretto sembra il legame che unisce Zwirner all’afroamericano Kerry James Marshall (classe 1955, nato a Birmingham, Alabama), altro artista della scuderia Zwirner, passato quest’anno (abbastanza a sorpresa) dal 68° al secondo posto della stessa classifica che ha incoronato David, una classifica compilata da trenta artisti, curatori e critici internazionali.
Il secondo posto di Marshall è il riconoscimento evidente al talento della Black Art che tanto appassiona Zwirner (nella classifica compaiono anche Thelma Golden, direttrice dello Studio Museum di Harlem, il teorico Fred Moten, la collezionista Pamela J. Joyner). Nonché la certificazione di una tendenza emersa anche dalla grande retrospettiva che il Metropolitan Museum di New York aveva dedicato nell’ottobre 2016 a Marshall (Mastry), dalla monografica al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh (fino al 25 marzo) e da History of painting appena conclusa nella sede londinese di Zwirner. Nel maggio 2016, da Christie’s a New York, per il suo Plunge (acrilico più collage su tela del 1992) sono stati sborsati 2,1 milioni di dollari e oggi quello stesso Plungefa parte della collezione permanente del MoMa, fianco a fianco con le opere di (ormai) classici come Jackson Pollock e Ellsworth Kelly.
Dunque, Mr. Zwirner, che cosa si prova a essere considerato l’uomo più potente del mondo dell’arte?
«Potrei semplicemente dire che sono molto soddisfatto, perché è un riconoscimento alla qualità del mio lavoro durante tutti questi 25 anni, un premio significativo che arriva nell’anno dell’anniversario, un anno davvero per me molto importante. Insomma, non mi posso lamentare, tantomeno adesso che siamo a Natale».
Le avrà fatto piacere, in questa «ArtReview Power 100», anche il secondo posto di Kerry James Marshall, uno degli artisti di punta della sua scuderia. Cosa ha, secondo lei, di speciale?
«Marshall è un grande artista, forse uno dei più grandi tra i contemporanei, pieno di talento e ispirazione, dotato di un senso del colore e della forma eccezionale e con una tecnica stupefacente. L’ho conosciuto molti anni fa, prima ancora che diventasse così famoso, e mi aveva colpito fin da subito per queste doti, anche se il grande salto Marshall l’ha fatto negli ultimi dieci anni. Prima era solo un artista molto bravo, ora è un simbolo».
Di che cosa?
«Della Black Art e più in generale dell’arte africana. È con personaggi come Marshall, grazie al suo lavoro sulla rappresentazione di un universo afroamericano molto quotidiano, che è stata finalmente cancellata l’idea che l’arte africana sia solo folclore e che gli afro siano personaggi macchiettistici o – sempre e solo – con una storia traumatica alle spalle. Insomma, grazie a Marshall abbiamo compreso quanto la società afro-americana sia simile, nel bene e nel male, alla nostra. E come noi sembrano averlo capito i grandi musei come il Met, le grandi fondazioni come quella di Prada che nella mostra Sanguine. Luc Tuymans on Baroque espone in questi giorni a Milano due Vignette di Marshall e i grandi collezionisti che a Londra hanno fatto letteralmente a gara per comprare i suoi lavori; uno di questi, un bellissimo dittico, se l’è accaparrato un collezionista italiano. Ma non mi chieda il nome, non glielo dirò. Insomma, Marshall ha definitivamente corretto il nostro sguardo sull’arte africana».
Come nasce questa sua grande passione per l’arte africana contemporanea?
«L’Africa rappresenta il futuro. Lo dimostrano personaggi ormai celebri come Marshall e nuovi eroi come Roy DeCarava, fotografo di Harlem, scomparso nel 2009, che io considero uno dei più interessanti art-maker del suo tempo e su cui punto molto per il 2019».
Come sceglie gli artisti della scuderia?
«Ho sempre cercato di raccontare e di mettere in mostra prima di tutto nuove idee. Ma bisogna essere realisti: le nuove buone idee non sono così facili da trovare. Poi cerco di inseguire l’autenticità, di scoprire voci autentiche. Insomma, voglio lavorare solo con chi ha una voce forte, chiara e vera. I miei artisti non devono seguire la moda del momento per inseguire il successo e nemmeno realizzare qualcosa a tutti i costi originale; devono prima di tutto elaborare una loro idea di arte. Meglio aspettare e raggiungere più tardi il successo: il successo sarà più vero e durerà più a lungo».
Il suo è sempre un colpo di fulmine?
«Non sempre. Quando vedo un nuovo artista per la prima volta mi può succedere che la scintilla non scatti, magari perché non riconosco immediatamente il suo linguaggio. Ma è proprio allora che cerco di prestare ancora più attenzione a quello che l’artista mette in scena, alla sua rappresentazione, non voglio lasciarmi scappare un talento. È anche una questione di mercato: se tu rappresenti artisti bravi e di talento, sarà per te molto più facile venderli bene, i collezionisti vogliono prima di tutto la qualità».
In base a questi criteri, «la Lettura» ha chiesto a David Zwirner di indicare i dieci artisti del XXI secolo che bisognerà tenere d’occhio il prossimo anno. La sua risposta è nell’infografica qui accanto. Zwirner poteva indicarne tre della scuderia – il gallerista ha nominato Murillo, Tillmans e Wolfson – anche se poi ha aggiunto Njideka Akunyili Crosby, artista afroamericana per cui si è di recente parlato di bolla speculativa (nel settembre 2016 il suo Untitled del 2011 è stato battuto da Sotheby’s di New York per centomila dollari). Njideka Akunyili Crosby è «condivisa» con la Galleria Victoria Miro. Nessun nome italiano nella sua speciale Top Ten né – «per ora no» – una succursale in Italia. E nessun classico: o meglio solo Caravaggio, quello del Ragazzo morso da un ramarro e del D avide con la testa di Golia riletti però da Luc Tuymans, un’altra delle passioni di Zwirner, lo stesso Tuymans che sarà protagonista dal 24 marzo al 6 gennaio 2020 di una retrospettiva curata da Caroline Bourgeois al Palazzo Grassi di Venezia (il titolo, La Pelle, è una citazione del libro di Curzio Malaparte che dà il nome a una delle tele di Tuymans esposte).
Riprendiamo: che cosa le piace di più del suo lavoro?
«Stare vicino all’artista, vederlo al lavoro, ma senza ossessionarlo e cadere nella tentazione di dirgli quello che deve fare e quello che non deve fare, perché sarebbe pericoloso. Trovo affascinante impegnarmi per valorizzare, per trovare un’audience globale a chi non ce l’ha, ma per farlo devo sentirmi vicino all’artista. Per questo ammiro galleristi come Konrad Fischer di Berlino che ha lavorato fino alla fine con Bruce Nauman o come Leo Castelli e Ileana Sonnabend, personaggi che avevano stabilito un legame profondo con i loro artisti. Solo così possiamo aiutarli a trasformare in realtà le loro idee»
Lei è nato in una famiglia con la passione per l’arte (suo padre, Rudolph, è stato tra i fondatori di Art Cologne). Qual è il suo primo ricordo legato all’arte?
«Sono stato fortunato, da subito ho sentito l’arte come parte fondamentale della mia vita, oltretutto a Colonia la galleria dei miei genitori era al piano terra di casa nostra. Ricordo quanta impressione aveva suscitato in me quella Singing Sculpture di Gilbert & George. Ma volevo seguire la mia strada: così, dopo aver frequentato per un anno la Walden School di New York, ho deciso che non avrei fatto il gallerista in Germania ma in America: mi sembrava che il futuro cominciasse da lì. Ho avuto fortuna, ma non mi mancano i rimpianti: ho studiato musica, volevo diventare un batterista jazz, quando ero giovane ad Amburgo ho lavorato persino per la Polygram, poi ho scoperto di non avere abbastanza talento. Peccato».
La passione per la musica, in particolare per il jazz, è rimasta nel cuore di Zwirner: lo dimostra il concerto che Philip Glass ha tenuto nel 2015 nella prima galleria di Zwirner, a Soho, all’interno delle quaranta tonnellate di Equal, un’installazione di Richard Serra. Un concerto, di beneficenza, che conferma un’altra passione di Zwirner: la filantropia. Per assistere alla performance di Glass, il pubblico aveva pagato da 300 a mille dollari destinati a finanziare la realizzazione della House With Heart, una casa di soccorso per bambini abbandonati da realizzare a Katmandu, in Nepal. Tra le altre iniziative sostenute, attraverso eventi e vendite d’arte, quella per aiutare le vittime dell’11 settembre (I Love NY Art Benefit), i bambini affetti da disturbi del linguaggio (826NYC), gli orfani di Haiti (Artists For Haiti), i malati di Aids.
Mr. Zwirner, qual è il suo giudizio sul mercato dell’arte?
«Lavoro in questo mondo da 25 anni. Non trovo grandi differenze tra ieri e oggi. Ecco, forse l’unica vera differenza è che il mercato oggi è diventato troppo grande, troppo esteso, troppo difficile da seguire. All’arte si interessano in tanti, per quanto in modo spesso abbastanza superficiale. Quando ho iniziato, il mercato era riservato a pochi adepti, qualcosa di molto esclusivo, ci si conosceva tutti o quasi. Ora è diventato più grande, ma al tempo stesso si è persa la capacità critica, si compra spesso senza giudicare, orecchiando tendenze, spulciando su internet, badando più al prezzo che alla qualità. In fondo, senza scegliere veramente. E invece bisogna avere il coraggio di scegliere, oggi più che mai, lo dico sempre: perché non è vero che tutto quello che è costoso deve essere per forza bello e buono, in giro si trovano anche cose molto brutte che sono diventate molto costose solo perché sono diventate di moda».
E le fiere?
«Alcune restano fondamentali, come Art Basel: sono le fiere dove però si va per comprare, non per dare un’occhiata alle tendenze. Le fiere che contano, almeno per me, restano quelle che hanno un passato e qualcosa di più di un passato, una storia, quelle che si rivolgono ai collezionisti tradizionali. Poi ci sono le nuove fiere, come New Delhi o Taipei, che sembrano fatte apposta per chi non si era mai occupato d’arte, per un pubblico da conquistare e in qualche modo da creare. Sono due mondi diversi, ognuno con una tipologia specifica».
Proprio una presa di posizione sull’argomento delle fiere avrebbe dato a David Zwirner la «spinta finale» per passare dall’ottavo posto del 2017 al primo del 2018 nella «ArtPower 100»: lo scorso aprile, durante una conferenza a Berlino, Zwirner (che in occasione del 25° anniversario ha inaugurato con Jeff Koons una serie di Dialogues con gli artisti via podcast coordinati dal figlio Lucas) aveva proposto che le gallerie grandi pagassero di più gli stand delle fiere per andare incontro a quelle piccole. Un’indicazione (definita «in stile Robin Hood») subito accolta da Art Basel, che l’applicherà dalla prossima edizione, e dalla parigina Fiac.
Per concludere: quanto è dura oggi la vita di un giovane artista?
«È un momento difficile: da una parte c’è troppa offerta, dall’altra poca attenzione e poca disponibilità verso i nuovi talenti, anche da parte di noi galleristi. Si pretende da loro tutto e subito, si vuole che diventino subito stelle; ma il talento ha bisogno di tempo».
Quanto conta per l’arte contemporanea il rapporto con i musei, le accademie, le gallerie classiche?
«Sono realtà fondamentali per creare consapevolezza e per avvicinare all’arte. Cinicamente, da gallerista, posso dire che una mostra in un museo classico mi dà solo la definitiva consapevolezza che l’artista che ho scelto è bravo. Quando un contemporaneo arriva in un museo – il caso di Kerry James Marshall al Metropolitan lo dimostra – mi conferma che ho lavorato bene».