La Lettura, 23 dicembre 2018
«Se avete letto Kerouac sappiate che lo dovete a me»
«Jack Kerouac e Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, hanno animato la controcultura americana degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Sono stato l’agente letterario di tutti e due: personaggi molto diversi. Non si frequentavano. Non si conoscevano nemmeno. Solo una volta, con Neil Cassady, il compagno di viaggio di Jack in Sulla strada, riuscimmo a farli incontrare. Nel giugno del 1964, in un appartamento di Manhattan. Un piccolo party: c’erano anche Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e altri. Ma loro due si parlarono appena. Kerouac, molto riservato e a disagio per l’esuberanza di Kesey, dopo un’ora se ne andò». In una torre d’uffici a un passo da Wall Street c’è la sede della Sterling Lord Literistic, blasonata agenzia letteraria. Lì «la Lettura» incontra un uomo anche lui molto particolare: Sterling Lord, che l’ha fondata e tuttora la dirige, è un attivissimo novantottenne con memoria di ferro e un fisico che gli ha consentito di diventare campione di tennis a 15 anni, continuando poi a giocare a livelli competitivi per 78 anni.
Non parla solo di Little Boy, il romanzo del quasi centenario di Lawrence Ferlinghetti (anticipato da «la Lettura» #366 del 2 dicembre scorso), che verrà pubblicato da Doubleday a marzo. Ma Lord – un agente che rappresentò, oltre ai protagonisti della beat generation e della cultura hippy, anche Robert McNamara, il ministro della Difesa di John Kennedy, considerato il principale responsabile della guerra del Vietnam, o il giudice John Sirica che durante il caso Watergate mise con le spalle al muro il presidente Nixon – ha molto di più da raccontare: dalla sua scuderia di autori – che comprende anche Pierre Salinger, amico e biografo di JFK, l’ex capo della Cia Richard Helms e J.B. West, maggiordomo e gran cerimoniere della Casa Bianca con sei presidenti, da Roosevelt a Nixon – fino all’amicizia con Katharine Graham, editrice del «Washington Post» e con Jacqueline Kennedy Onassis. E fino al rifiuto di rappresentare come autore un presidente degli Stati Uniti: Lyndon Johnson.
Lei ha venduto «Little Boy» all’editore più prestigioso, Doubleday, ma c’è voluto tempo: altri si erano ritirati, spaventati dalla complessità del linguaggio sperimentale di Ferlinghetti. È stato più difficile trovare un editore per questo libro o per «Sulla strada»?
«Per Kerouac mi ci vollero 4 anni e mezzo. Problemi legati al linguaggio, sconvolgente per quei tempi, ma anche al modo in cui Jack aveva presentato il suo racconto. Aveva scritto a macchina con furia, su un unico rotolo di carta lungo 30 metri. Quando lo consegnò a Bob Giroux, il futuro cofondatore della casa editrice Farrar, Straus & Giroux, allora editor della Harcourt Brace Jovanovich, lui glielo restituì dicendo che non era quello il modo di presentare un’opera letteraria: Jack lo prese per un rifiuto. Invece era solo un invito a cambiare veste grafica. Giroux venne da me e mi parlò di questo giovane bisognoso di un agente. Lessi e mi entusiasmai: era il 1952. Ci vollero anni e più revisioni del testo, anche per rendere non identificabili i personaggi problematici, prima di trovare l’editore giusto. Poi, nel ’57, il successo fu straordinario».
La celebrità lo distrusse. Kerouac morirà a 47 anni, devastato dall’alcol. Lei gli fu vicino allora. Che vita faceva?
«In realtà molto ritirata. Quando incontrò Kesey, viveva con la madre a Northport. Anche per questo l’incontro non funzionò. Lui era un tipo riservato e il simbolo di un movimento, i beat, che cercava di cambiare la letteratura. Molto diverso dall’estroverso e tuonante Kesey che, grazie anche alla Cia che l’aveva usato come cavia per i suoi esperimenti con l’Lsd, divenne l’alfiere della rivoluzione psichedelica dalla quale nacquero gli hippy. Che, come Kesey che portava in giro i Merry Pranksters (allegri burloni, ndr) sul suo bus psichedelico, volevano cambiare il mondo, non solo la cultura».
Kerouac, Ferlinghetti, Kesey. L’amicizia con Ginsberg: un’immersione nella controcultura della sinistra Usa. Che cosa c’entra McNamara, uno dei principali bersagli di quel movimento?
«Nel mio lavoro ho sempre cercato di restare apolitico. Con l’ex capo del Pentagono ed ex capo della Banca Mondiale, poi, un ruolo l’ha avuto anche il tennis. D’estate, a Martha’s Vineyard, frequentavo la villa di Patricia Bradshaw, vedova del presidente della Nbc e vicina di casa di McNamara. Avevamo cenato più volte insieme. L’ex ministro, molto atletico e competitivo ma poco dotato per il tennis, mi chiedeva spesso di giocare. Alla fine accettai per cortesia e si creò un rapporto di simpatia. Alcuni anni dopo, nel 1992, quando lui, a lungo biasimato dalla sinistra che lo considerava il principale responsabile del Vietnam e della morte inutile di 50 mila americani, decise di togliersi il macigno di dosso pubblicando una riflessione su quella tragedia e riconoscendo i suoi errori, chiese a me di rappresentarlo. Non fu facile: 9 editori rifiutarono. Per ragioni ideologiche, non per il valore dell’opera. Quando poi In Retrospect. The Tragedy and Lessons of Vietnam uscì, fu un grande successo».
Come entrò nella sua vita Sirica?
«Mi cercò lui. Era stato il giudice del processo contro gli scassinatori repubblicani penetrati nel Watergate, il quartier generale del partito democratico, durante la campagna elettorale del 1972. Il presidente era coinvolto? Nonostante la resistenza di Nixon che si appellò ai poteri presidenziali, Sirica riuscì a ottenere le registrazioni delle conversazioni nello Studio Ovale della Casa Bianca: nastri che inchiodarono il presidente. Quando questo figlio di un barbiere italiano venne da me per pubblicare To Set the Record Straight, il suo racconto di quella pagina di storia, fui molto compiaciuto. Poi capii che l’onore comportava anche oneri: pretendeva un contratto senza precedenti, con tutte le eventuali responsabilità civili, in caso di denunce, a carico dell’editore. Il contrario della formula abituale. Ricevetti quattro offerte, ma solo un editore, Norton, accettò quella clausola».
Anni fa lei ha pubblicato un’autobiografia, «Lord of Publishing», nella quale racconta anche dei suoi rapporti con Jacqueline Kennedy Onassis e con Lyndon Johnson.
«Negli anni Settanta Jackie divenne editor di Doubleday e Viking. Ci vedevamo spesso, le portavo sandwich a pranzo nel suo ufficio. Un mio cliente, David Wise, un grande giornalista investigativo che lei aveva conosciuto alla Casa Bianca, mi chiese di incontrarla. Sperava di scrivere, con lei, un’autobiografia. “Forse, quando avrò 90 anni”, fu la risposta. Ma David le piaceva e alla fine fu Jackie a pubblicare, per Doubleday, un romanzo di Wise, una storia di spionaggio russo».
E il rifiuto opposto a Johnson?
«Vennero da me i suoi emissari. Voleva un anticipo molto elevato per quell’epoca, un milione di dollari. L’ex presidente era poco popolare e aveva una forte personalità: mi feci l’idea che fosse più interessato ai soldi che a raccontarsi con sincerità. Un agente deve sapere dire di no anche a un cliente prestigioso, se capisce che l’operazione proposta è perdente». Pubblicato nel 1971, il libro di Johnson vendette poco e fu stroncato dalla critica.
A 98 anni Lord rappresenta ancora autori storici come Ferlinghetti, ma anche il romanziere britannico David Mitchell e la conduttrice della Msnbc, Rachel Maddow, la polemista più amata dalla sinistra Usa. E non ha intenzione di smettere: «Ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi ha consentito di soddisfare i miei interessi: bella scrittura, buone idee, incontri con gente straordinaria».