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 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Biografia di Hanna Schygulla

Hanna Schygulla, nata a Katowice (Polonia) il 25 dicembre 1943 (75 anni). Attrice. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, un Orso d’argento per la migliore attrice (1979, Il matrimonio di Maria Braun) e l’Orso d’oro alla carriera (2010) al Festival di Berlino e un premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes (1983, Storia di Piera). «Il viso di Hanna Schygulla è un fazzoletto di seta che qualcuno ha gettato in aria, e sul quale vengono proiettate delle immagini mentre ancora fluttua sospeso» (Elfriede Jelinek). «Sono un’intellettuale, e non una cretina che ha scelto di fare del cinema perché non sapeva che altro fare» • Genitori tedeschi con ascendenze polacche. «Quasi tutti mi credono tedesca, ma in realtà sono nata in Polonia, a Katowice, e mi sono trasferita poi in Germania, a Monaco, che ero ancora bambina. Ma il mio carattere risente delle tormentate vicissitudini della mia terra, che era stata tedesca fino a tutto il 1921, quindi libera fino al 1939 e rioccupata dal nazisti nel primi giorni di guerra». «La mia era una famiglia di profughi, fuggiti a Monaco con l’ultimo treno per l’Occidente. Fin da bambina mi sentivo con un’anima doppia: ero una che stava con gli altri, come gli altri, e una che non apparteneva al mondo in cui viveva. Sono sempre stata attratta dalle cose estranee. Mi chiamavano "la polacca", "la bambina fuggitiva". Questo, per me, non era motivo né di orgoglio né di umiliazione o imbarazzo. Era così e basta. Forse è una delle ragioni per cui sono diventata attrice, una che fa vivere personalità e storie diverse. Quando ero piccola e con la scuola andavamo in gita o in vacanza, la sera le altre bambine piangevano, avevano nostalgia. Io no, mai. A volte penso che a me manca qualcosa, forse l’attaccamento a una radice, un’identità» (a Liliana Madeo). «Sognava fin da bambina di diventare attrice? “Avrei voluto essere come Marilyn Monroe, ma non pensavo a fare l’attrice. La mia aspirazione era di diventare ballerina, aspirazione che provocava addirittura orrore nella mia famiglia piccolo-borghese. Rifiutavo addirittura l’idea di poter fare l’attrice: pensavo che non ne sarei stata capace”. E tuttavia questo non le ha impedito più tardi di frequentare una scuola di recitazione… “Fu una decisione presa d’impulso, tanto è vero che poco tempo dopo l’ho lasciata. In fondo, non mi serviva a nulla. Invece di farmi acquistare disinvoltura, finiva per irrigidirmi ancora di più. Ma è stato un fatto positivo: è stato lì che ho conosciuto Fassbinder”» (Lamberto Antonelli). La versione di Fassbinder (1945-1982): «Ci siamo conosciuti in una delle fin troppo numerose scuole di recitazione a Monaco, che hanno per lo più come unico scopo quello di fomentare e poi convertire in moneta sonante l’enorme passione che spinge tanti giovani verso quel palcoscenico che rappresenta il mondo. Le mie motivazioni, e quelle di Hanna Schygulla, nel frequentare la scuola erano però parecchio divergenti da quelle dei nostri colleghi. Non erano le nostre ragioni il palcoscenico, il teatro, diventare attori a ogni costo, questo insegnamento teatrale (sproporzionato nei costi rispetto alle disponibilità dei giovani) che consisteva in esercizi di respirazione, di dizione, nello studio dei ruoli e in una serata di esercitazione, una volta la settimana, ogni mercoledì, in cui tutti gli allievi si radunavano per mettere assieme qualcosa, una sorta di libera improvvisazione su un tema obbligato. Soprattutto, quelle serate rappresentavano per un verso lunghe ore di disperazione, ma anche di un sadismo della peggior specie. Non mi è capitato spesso di assistere in seguito a degli esseri umani che si deridono e si disprezzano così spietatamente. […] Il motivo per cui restai in quella scuola è presto detto. Fin dal primo momento in cui pensai seriamente al mio futuro, avevo deciso di fare del cinema. […] A un certo punto era corsa voce che nel giro di un paio d’anni avrebbero aperto a Berlino una scuola superiore di cinema. In ogni caso, si diceva anche che per potervi accedere bisognava disporre di un vero diploma, di qualsiasi scuola fosse. Mancandomi altre idee, mi ero deciso a frequentare quella scuola di recitazione, e, considerati i costi non indifferenti della frequenza, si capisce che non fecero storie per prendermi. Hanna Schygulla dal canto suo studiava germanistica e, se non ricordo male, anche inglese e francese. Voleva diventare insegnante. Ma a un certo punto aveva cominciato con l’annoiarsi: la sua esistenza le sembrava troppo piatta, preordinata, triste, angusta, troppo poco libera. Allora, coi genitori assolutamente contrari, si iscrisse di nascosto alla scuola di recitazione, per chiarirsi meglio le idee su di sé e sui propri desideri. Scelse quella scuola come se andasse da uno psicanalista. Ovviamente non impiegò molto tempo per accorgersi della truffa: era molto triste e delusa, e non durò un anno che se ne andò. Curiosamente Hanna Schygulla e io, benché si fossero ben presto accorti che eravamo due tipi non proprio docili, due outsider estremamente critici, eravamo considerati i più dotati della scuola, due allievi difficili, ma anche provvisti di un talento promettente, vuoi un po’ fuori della norma, insomma decisamente inquietante. […] Dopo le “esercitazioni” del mercoledì sera, gli studenti andavano a bere un paio di bicchieri di vino in qualche locale a buon mercato. Argomento costante delle conversazioni erano le speranze di una scrittura, i desideri e le ambizioni di una carriera, ma anche le singole paure, le frustrazioni e le fantasie risvegliate che evocavano non pochi pensieri di suicidio. Hanna Schygulla e io non aprivamo quasi bocca: stavamo soprattutto ad ascoltare quelli che parlavano, e cercavamo anche, credo entrambi, di spiegarci ciò che si diceva. In qualche rara serata parlammo anche noi. Lei della letteratura e della vita. Io del cinema e della vita. Gli altri però non mostravano quasi il minimo interesse alle nostre parole. Durante una di quelle serate, improvvisamente, da un secondo all’altro, ebbi ben chiaro in testa, come colpito da un fulmine, che la Schygulla sarebbe diventata la star dei miei film, e che io avrei fatto il regista: non avevo più dubbi». «Alla vigilia della laurea, Hanna interrompe gli studi e inizia a frequentare gli ambienti del cinema e del teatro d’avanguardia. Lavora con Peter Stein, anima a Monaco la più nota struttura teatrale “off”, e cioè l’Anti-Theater, interpreta nel ’68 un film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, la coppia più coerentemente estrema nel cinema non narrativo. E, soprattutto, è presente in quasi tutti i film di Fassbinder, a volte in ruoli meno importanti, a volte come protagonista, ma con un percorso che testimonia la sua costante crescita come attrice. Dopo Selvaggina di passo (1972) e Effi Briest (1974), che pure vengono distribuiti non solo in Germania ma anche all’estero, arrivano Il matrimonio di Maria Braun (1978), lo sceneggiato televisivo Berlin Alexanderplatz (1979) e Lili Marleen (1980), che sono successi in tutto il mondo. Il volto di Hanna Schygulla e la sua passionalità intellettuale diventano famosi e riconoscibili, anche perché l’attrice è di fatto il volto più noto del nuovo cinema tedesco: lavora anche con Wim Wenders in Falso movimento (1974), con Schlöndorff in L’inganno (1981) e con Margarethe von Trotta per Lucida follia (1983). A poco a poco si rivolgono a lei i registi più anticonformisti e innovatori: primo tra tutti Jean-Luc Godard che la utilizza in Passion (1982), poi, l’anno successivo, il polacco Andrzej Wajda per Un amore in Germania. E all’elenco non manca neanche il genio anarchico di Marco Ferreri, che la vuole per Storia di Piera (1983) e Il futuro è donna (1984), mentre per l’israeliano dissidente Amos Gitai interpreterà un sofferente personaggio in Golem, un riassunto della sua vasta gamma di possibilità interpretative. Nella sua filmografia, peraltro, non mancheranno alcune cadute di gusto, tipo la hostess quasi grottesca nella disastrosa produzione Cannon Delta Force. Ma la forza del personaggio riesce ad andare oltre questi ruoli alimentari» (Steve Della Casa). All’inizio degli anni Novanta, «accadde qualcosa che mi allontanò dal grande schermo. Mia madre invecchiò di colpo, e mi occupai di lei per otto anni. Poi passai ad accudire mio padre, che era rimasto paralizzato. A loro dovevo molto, perché li avevo resi infelici per le mie scelte. In qualche modo volevo farmi perdonare». Da allora, nonostante abbia partecipato a numerose produzioni cinematografiche e televisive in ruoli non di primo piano – tra le ultime pellicole in cui è apparsa: Ai confini del paradiso di Fatih Akin (2007) premiato per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes, Faust di Aleksandr Sokurov, premiato col Leone d’oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Fortunata di Sergio Castellitto (2017), presentato fuori concorso a Cannes, e La prière di Cédric Kahn (2018), presentato in concorso al Festival di Berlino –, la Schygulla si è dedicata principalmente al teatro, cimentandosi in originali spettacoli in cui fonde recitazione e canto, interpretando, in una sorta di «recitar cantando», testi degli autori a lei più affini (da Bertolt Brecht a Rainer Werner Fassbinder, da Peter Handke a Heiner Müller, fino a Charles Baudelaire e a Thomas Bernhard) e altri scritti da lei stessa con un accompagnamento musicale, generalmente del compositore e pianista Jean-Marie Sénia. «Dai set del grande cinema europeo […] al palcoscenico musicale, per Hanna Schygulla il passo è stato breve. “Da quando ho smesso di fare cinema […] ho scelto di dedicarmi alla voce, che è la base dei miei recital. Ma la musica per me è una passione di antica data, perché fin da bambina amavo ascoltarla alla radio, quando ancora non c’era la televisione. Da quella sorta di orecchio sul mondo percepivo la musica e le voci da altri Paesi, e il desiderio era quello di unire la mia voce a quelle che udivo, specie quando mi ritrovavo sola. In Germania, dove sono cresciuta, c’è un’educazione musicale molto rigorosa, e non avere fatto studi specifici non mi faceva sentire molto a mio agio. Mi sono dedicata così al cinema e al teatro, conservando nei confronti della musica un atteggiamento molto naïf, spontaneo”. Ma c’è stata una prima volta, sul palcoscenico. “Nel 1992, […] in Sicilia, a Gibellina. È stato uno spettacolo-happening con Markus Stockhausen, figlio di Karlheinz. Era un percorso che coprivamo insieme, partendo da due punti diversi. Io inventavo una melodia cantata, e Markus mi seguiva con la tromba, suonando e improvvisando a sua volta. È stata una cosa meravigliosa, piena della naturalezza che mi legava alla musica. Io amo cantare con semplicità: neppure leggo la musica. Ho bisogno di ascoltare la melodia per ripeterla. […] Nei confronti della musica mi ritrovo quasi come un neonato: non provo più la stessa inibizione di quando ero giovane. Cerco di essere così come raccomando ai giovani che mi chiedono consigli. A loro rispondo che, per fare qualcosa al meglio, bisogna pensare alle cose che si amavano durante l’infanzia. Bisogna spogliarsi, liberarsi, in un modo che mi ricorda le matrioske, le bambole russe che stanno una dentro l’altra. Quella più piccola, alla fine, è ciò che in realtà siamo noi”» (Alberto Bonanno). «Sulla scia di una tradizione tutta tedesca di attrici-cantanti che annovera i nomi venerabili di Marlene Dietrich e Lotte Lenya e quello più giovane ma non meno illustre di Ute Lemper, Hanna Schygulla porta sul palco la capacità di ricreare situazioni coinvolgenti, in cui la musica fa da suadente tramite. E porta in particolare una bravura strabiliante, che ha fatto scrivere a Jean-Claude Carrière: “Hanna ha quello speciale talento che ci fa credere che lei sappia cantare e che sappia danzare. In realtà non ha mai imparato a fare né una cosa né l’altra, ma le fa entrambe con superba grazia, e sempre adattando la tecnica a se stessa”» (Leonardo Osella) • «Voce che a tratti ha la profondità di un’acqua notturna, a tratti esplode in crepitii secchi, altre volte si avvolge nella raucedine, come se, per sortilegio, uscisse non più da Hanna ma da Marlene (Dietrich). Dicono che la Schygulla non sia una cantante. Tecnicamente sarà anche vero, ma, alla resa del palcoscenico, questa non-cantante è un vero demonio di seduzione e di bravura. Canta da attrice: non per sapienza, ma per civiltà e per ricordanza» (Osvaldo Guerrieri). «Questa è la sua dote: farsi portatrice di un talento popolare che coincide sempre con l’impegno, cantare la malinconia ma anche la fierezza dell’essere, dell’esserci. E lei che oggi non ha problemi a dire che il cinema si disinteressa di lei e non il contrario, lei che incarna un argomento serio a favore della bravura e non del mito (che pure, lo voglia o no, ha rappresentato) della bellezza, lei che non è fatta per il matrimonio (rifiutò una proposta del pur omosessuale Fassbinder che voleva condurre due vite complementari), la convivenza e i figli, lei porta ora in giro questo sue visualizzazioni di sogni, questa sua poetica canora e questa sua filosofia di traghettatrice di generi, di canoni, di storie, di penombre liriche, di morbidezze solide» (Rodolfo Di Giammarco) • «"Senza Fassbinder non sarei mai diventata attrice. Ho partecipato alla metà dei suoi film, almeno una ventina, e ho fatto parte del suo universo per tredici anni: quasi un matrimonio". Con fasi talvolta turbolente: "Sul piano personale non abbiamo mai mescolato le nostre vite per non mettere in pericolo il lavoro. Certo, ci sono stati litigi. Io, per esempio, non ho mai sopportato la vita di gruppo con lui e i nostri amici. Lui, poi, aveva un po’ la mania di dominare la gente, ma al tempo stesso gli piaceva quando non ci riusciva. Siamo stati amici anche per questo. Quanto al lavoro, io ero una pedina nel suo gioco di scacchi. Fassbinder era un regista rigoroso e libero al tempo stesso. Veniva sul set con dei disegnini e il film era già nella sua testa. Ci mostrava le posizioni, i gesti, ma poi ci diceva di fare quello che volevamo. Avere persone a sua totale disposizione, capaci al tempo stesso di creare autonomamente, è una delle ragioni della sua velocità a girare un film"» (Anna Bandettini) • «Attrice di grande magnetismo e volto straordinario del cinema europeo» (Adriana Falsone). «Il volto di Hanna Schygulla resta indelebilmente legato a una stagione in cui tutto il cinema europeo cercava una sua strada non attraverso l’appiattimento delle attuali coproduzioni comunitarie, ma visualizzando fantasmi e contraddizioni che appartengono alla tradizione continentale. Un cinema duro, non oleografico, non conciliante›» (Della Casa). «Interprete prediletta di Rainer Werner Fassbinder, che anche al suo sguardo fermo e al suo corpo, dove la bellezza sembrava sfidare la feroce volgarità che la circondava, chiese di esprimere il malessere della Germania moderna» (Sandro Cappelletto). «I tratti del suo volto sembrano disegnare una grande alterigia, tradita da una insinuante sensualità. È forse questo il segreto dell’intramontabile charme di Hanna Schygulla. […] La sua sensualità si fa palpabile, sul grande schermo come sui palcoscenici teatrali che, delusa dal cinema d’oggi, calca con sempre maggiore frequenza» (Antonio Di Giacomo). «Un tempo così bella, sensuale e sfrontata, […] ha sempre quella pelle luminosa alla tedesca, è sempre molto brava» (Lietta Tornabuoni) • «Non ho mai voluto essere una perfezionista: Fassbinder mi consigliò bene. Tutto può diventare interessante se accantoni il perfezionismo e impari ad apprezzare la novità, perché se vediamo sempre le cose a cui siamo abituati diventiamo ciechi» (Leonardo Jattarelli). «“È sempre difficile entrare in un personaggio nuovo, anche perché io voglio entrarci completamente, con tutte le mie forze. È una specie di metamorfosi, di simbiosi fra me e il personaggio. […] Sono stata sempre molto insicura, e questa insicurezza mi permette di adattarmi meglio ai vari personaggi, ad essere un po’ me stessa; mi rende anche più facile passare dal riso al pianto secondo le esigenze del copione”. […] Anche se tende a negarlo, si continua a pensare a lei come a un’attrice di forte carica erotica… “Certi manifesti, certe presentazioni dei miei film mi hanno irritata. È per questo che cerco di sfuggire al fantasma di Hanna Schygulla in reggicalze, anche se ritengo che la sessualità abbia un posto importante sia nella vita sia nell’arte e che non sia possibile fare film privi di un minimo di componente erotica”» (Antonelli) • Nubile e senza figli. A lungo sentimentalmente legata allo sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière, visse dal 1981 al 2014 a Parigi («Ho vissuto un amore a Parigi. Mi sembra il più bel modo di scegliere una città»). Attualmente risiede a Berlino • «“Io sono una donna allegra. Le figure tragiche dei miei film non mi toccavano. A volte ho rifiutato dei ruoli perché non sopportavo il peso di storie cariche di dolore o violenza. Ad esempio, ho detto ‘no’ a David Lynch quando mi ha chiamata per Blue Velvet. Uno dei miei errori professionali. Ma il cinema non sta in cima a tutto. La mia vita conta di più. Il successo è bellissimo, è magico. Ma c’è una magia più segreta e importante che è alla base dell’arte: saper ascoltare se stessi. Io pratico molto la solitudine. Che è diversa dall’isolamento. Quando torno a casa la sera, e tutto è silenzio e mi chiudo dietro la porta, allora ricomincio a caricarmi”. […] Parla della bellezza, che era convinta di non avere e per cui ha smesso di crucciarsi: “Adesso mi sono finalmente liberata! Non me ne importa niente”, annuncia. Parla del matrimonio, che ha sempre schivato con cura. E dei ricordi che la inseguono: “Tutti mi chiedono di Fassbinder! Non ne posso più. Mi sembra di essere diventata un pezzo da museo!”. S’illumina quando parla della maternità come esperienza fisica e psichica che avrebbe amato vivere, “un terremoto nella vita di una donna, immagino”» (Madeo) • «Le attrici di oggi non mi somigliano. I tempi sono cambiati: la sensualità non interessa più a nessuno» (a Roberto Incerti). «Occorre guardare sempre avanti». «Non sono un tipo da nostalgie. Quando ero piccola tenevo sempre nel mio piatto il boccone migliore per ultimo. Vuol dire qualche cosa, no?» (a Sergio Trombetta).