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 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Intervista a Carlo Verdone

Un nuovo film in preparazione, il desiderio di affrontare il tema mai affrontato della malattia, il bilancio dei suoi 40 anni di gloriosa carriera, una parola per ogni attrice che ha diretto. E gli eterni problemi dell’amata Roma: Carlo Verdone, Grande Ufficiale della Repubblica e laureato ad honorem in beni culturali, è venuto in redazione. E ha fatto gli auguri ai lettori del Messaggero raccontandosi a tutto tondo.
Di cosa parla il nuovo film?
«È una commedia corale, interpretata da me con altri cinque-sei attori. Girerò a Roma e forse anche al Sud».
Il tema?
«L’amicizia».
Dopo 27 film, di cosa non ha ancora parlato?
«Della malattia. Non mi dispiacerebbe affrontare questo argomento, magari diretto da un bravo regista».
Si può ridere della malattia?
«Perché no, se lo fai con sensibilità e tatto. A me basterebbe portare sullo schermo gli appunti presi nel corso dei tanti incontri che ho avuto con i malati».
E cosa le dicevano?
«Mi ringraziavano perché i miei film avevano rappresentato una compagnia preziosa nei momenti più difficili».
Ma lei fa ancora diagnosi e prescrizioni agli amici?
«Ho smesso. Non voglio far arrabbiare i medici o diventare una barzelletta. Ci ho sempre azzeccato, ma ho consigliato a ogni paziente di rivolgersi a un vero dottore».
Una volta per tutte: è o non è ipocondriaco?
«No, nel modo più assoluto. Ho solo una grande passione per la medicina e per i farmaci».
Dei suoi 40 anni di carriera, cosa la rende più orgoglioso?
«L’idea di aver raccontato l’Italia attraverso i decenni. Mentre Alberto Sordi portava sullo schermo i grandi traumi come la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione, il mio sguardo si è sempre poggiato sui rapporti interpersonali: la famiglia, il matrimonio, le fragilità affettive, le nevrosi relative ai vari periodi storici».
E qual è la nevrosi di oggi?
«Siamo tutti tristi e arrabbiati, non guardiamo gli altri ma il cellulare. Questa realtà complica il lavoro di noi registi: prima avevamo il quartiere, i negozianti, la gente comune a cui ispirarci, oggi invece c’è il centro commerciale, una piazza d’armi in cui nessuno comunica».
Ha interpretato tanti personaggi eccessivi e volgari: cos’è oggi la volgarità?
«L’omologazione. Stesso taglio di capelli, identici tatuaggi, nessuna vera condivisione. I miei coattoni, come Ivano, avevano un’anima. Oggi manca l’aggregazione. Bisogna battersi per non far morire cinema e teatro».
Guardandosi indietro, che pregio si riconosce?
«Ho sempre affrontato il mio lavoro in modo disciplinato. Non ho mai fatto vita mondana e continuo a impormi degli orari. Mi considero un soldato».
È per questo che non ci sono mai stati gossip o paparazzate piccanti sul suo conto?
«Su di me non c’è molto da dire. Non frequento i posti in cui si va per farsi vedere. Sto appartato con pochi amici».
Cosa consiglia agli aspiranti registi?
«Di coltivare la memoria storica. Se non conosci il passato del cinema, non capisci il presente né prevedi il futuro. In una scuola importante di regia non sapevano chi fosse Ugo Tognazzi. Me ne sono andato arrabbiato».
Conseguenza della cultura frettolosa di internet?
«No, mancanza di curiosità. Di Quentin Tarantino i ragazzi sanno tutto, ma ignorano chi sia l’immenso Pietro Germi».
Veniamo alle sue attrici. Eleonora Giorgi?
«Luminosa, briosa».
Ornella Muti?
«Una gattona. Tutti la consideravano irraggiungibile ma in fondo era la ragazza della porta accanto».
Margherita Buy?
«Spiritosissima, deliziosa anche se devi avere la forza di sopportare le sue stranezze. Con lei ho girato Maledetto il giorno che ti ho incontrato, uno dei miei film migliori».
Asia Argento?
«Ne ho un ottimo ricordo: è stata professionale e preparatissima. Le auguro tutto il bene possibile dopo il periodo tormentato che ha vissuto».
Claudia Gerini?
«La mia anima gemella, ci siamo coordinati alla perfezione per raccontare il mondo della periferia».
Laura Chiatti?
«Umile, di grande temperamente. E serissima».
Micaela Ramazzotti?
«Era formidabile già ai tempi di Zora la vampira. Ed è cresciuta nel tempo».
Paola Cortellesi?
«Una sicurezza. Ha esperienza e amabilità: mi ha dato la carica quando ero stanco. Un’alleata preziosa».
Ilenia Pastorelli?
«Il volto bello della periferia, quella di una volta. Porta in scena il suo lato buffo ed è irresistibile».
Dobbiamo asfaltare il Tevere, come proponeva il suo Armando Feroci in Gallo cedrone, per rendere Roma vivibile?
«Se escono mille pullman turistici ogni giorno, rischiamo di arrivarci».
A parte gli scherzi, che si può fare per migliorare la vita della città?
«I romani dovrebbero cominciare a tenere bene il loro quartiere, ma spesso è fatica persa: vicino a casa mia hanno pulito un muro ma la mattina dopo era di nuovo imbrattato come il cesso di un autogrill. E va combattuta la burocrazia, disastro d’Italia e di Roma in particolare».
C’è un personaggio a cui più affezionato?
«Difficile scegliere. Uno è proprio Feroci che, nelle sue mille vite, diventa agente immobiliare e blatera di voler aprire cinque finestre in un muro maestro. Una grande performance che ho girato in appena 20 minuti».