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 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Un cocktail di traverso. E così nacque il tie break

«Se Jimmy Van Alen non fosse mai vissuto - disse nel 1991 Stefan Edberg - io e Michael forse non avremmo mai finito di giocare». Aveva appena perso una sanguinosa semifinale a Wimbledon contro Michael Stich, 4-6 7-6 7-6 7-6, senza mai cedere il servizio in tutta la partita, ma trovò comunque il timing perfetto per piazzare una battuta fulminea quanto una delle sue volée. Van Alen, l’inventore del tie-break, era morto sul colpo due giorni prima, a 88 anni, per una brutta caduta a casa sua, a Newport. La fine ideale, del resto, per chi aveva inventato la sudden death, la «morte improvvisa» del tennis. Fosse ancora fra noi Jimmy, a cui dobbiamo anche i tabelloni elettronici e le sessioni serali, oggi se la riderebbe sorseggiando un Martini. Dal 2019 tre Slam su quattro - l’eccezione è il Roland Garros - avranno il tie-break anche nel quinto set. 

È il successo dei network tv
A volerlo sono stati soprattutto i network tv, da sempre allergici all’imprevedibilità dei palinsesti, e i giocatori, ormai poco inclini agli straordinari (anche se ben retribuiti). L’episodio scatenante è stato, guarda caso, un’altra interminabile semifinale di Wimbledon, vinta lo scorso luglio da Kevin Anderson su John Isner in 6 ore e 36 minuti. «Bisogna fare qualcosa, match del genere sono troppo stancanti», ha esalato Anderson alla fine, innescando la miccia che in pochi mesi ha fatto capitolare sia Wimbledon sia Melbourne. E dire che nel 1970, quando gli Us Open decisero di introdurlo, Laver, Ashe, Roche, Emerson ed altri campioni scrissero addirittura una lettera alla federtennis americana, invocando i sacri principi dello sport. Gli organizzatori però tennero duro e Jimmy brindò ad una vittoria che inseguiva da vent’anni. «Oh, certo, lo so che il tie-break innervosisce i tennisti», sogghignò. «Ma gli spettatori lo ameranno. E voi avete mai visto un giocatore comprare un biglietto?». Qualche anno più tardi proprio Ashe raccontò del «silenzio mortale che cadeva nello stadio» all’inizio del tie-break, riconoscendo la genialità drammaturgia dell’invenzione. 

L’idea di Van Alen nel 1954
La prima idea di un sistema di punteggio diverso da quello tradizionale del (lawn) tennis a Van Alen era venuta assistendo alle inesorabili stragi di avversari che il Federer di allora, Pancho Gonzalez, compiva fra i pro. Si chiamava Vasss (Van Alen Streamlined Scoring System), e prevedeva match della durata massima di 31 punti, con cambio di servizio ogni cinque punti. La goccia che fece traboccare il vaso (o il vasss…) fu però la finale del 1954 del torneo a inviti che Van Alen stesso organizzava a Newport. Il non imprescindibile Ham Richardson impiegò oltre quattro ore e 83 games per battere 6-3 9-7 12-14 6-8 10-8 Straight Clark, e Jimmy, nipote di un mezzo eroe della Guerra Civile, cresciuto nel Rhode Island fra servitori e Rolls Royce, fu costretto a rinunciare alla sua adorata ora del cocktail e a spostare altri match sui campi laterali. «Non è possibile che il tennis non abbia orari prevedibili come tutti gli altri sport», sbuffò paonazzo; e da quel giorno iniziò una tenacissima opera di lobbying. 

Basta con gli straordinari
Il Vasss strada facendo si è trasformato nell’odierno «tie-breaker» (come lo chiamano gli yankee). Ha vissuto pagine immortali come il 18-16 nel quarto set della finale di Wimbledon 1980 fra Borg e McEnroe, e diviso gli appassionati ma si è meritato l’affetto dei giudici di sedia; primo fra tutti Mohammed Lahyani che nel 2010 a Wimbledon sopportò stoicamente il quinto set (senza tie-break e senza toilette) fra Isner e Mahut che durò otto ore. «Ho inventato il tie-break per dare un sollievo urologico ad arbitri e spettatori», sosteneva il vecchio Jimmy. Un Martini dry, alla sua memoria.