La Stampa, 24 dicembre 2018
«Musica negroide»: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter
La notte del 12 agosto 1926 una grande chiatta, illuminata a giorno, è ormeggiata in Laguna, davanti a piazza San Marco. A bordo, una negro jazz-band formata da musicisti afroamericani e guidata da Cole Porter fa ballare fino alle due del mattino un pubblico di 150 invitati, ospiti dell’Hotel Excelsior al Lido, dove l’attività principale di quell’estate è imparare il charleston. Il 15 e 16 gennaio 1935 la band di Louis Armstrong suona al Teatro Chiarella di Torino. Tra il pubblico, un giovane critico che da lì a qualche mese sarebbe stato arrestato per attività antifascista: è Massimo Mila e «Jazz hot», la sua recensione sulla rivista Pan, testimonia l’interesse che gli intellettuali italiani riservano a quella musica nuova che ormai sta conquistando il mondo. Nello stesso anno esce America primo amore. Mario Soldati racconta così una serata trascorsa al Cotton Club di New York: «Conosco da tempo questi locali: ottimi jazz (basti il nome di Duke Ellington), ottimi numeri di varietà e pubblico più bianco dei più bianchi, più ricchi, più manhattaniti». Il jazz in Italia era diventato moda.
Il peso dell’ideologia
Ma il successo durerà ancora poco, scrive Camilla Poesio in Tutto è ritmo, tutto è swing - Il Jazz, il fascismo e la società italiana (Le Monnier, pp. 175, € 14). La giovane studiosa documenta come un’ideologia possa prevaricare un gusto vincente, un piacere diffuso. Perché agli occhi del regime - mentre nel 1936 si proclama l’Impero dopo la cruenta conquista di territori africani e nel 1938 si promulgano le leggi razziali - è intollerabile che una musica «negroide» possa smuovere il corpo, il divertimento di un popolo di cui si ribadisce l’appartenenza alla «razza bianca». Ironia della storia: un figlio del Duce, Romano Mussolini (1927-2006), sarebbe diventato uno dei più stimati jazzisti italiani.
Il libro della Poesio - che si aggiunge al fondamentale contributo di Adriano Mazzoletti sulla diffusione e la specificità del jazz in Italia, agli studi di Stefano Zenni e di Marcello Piras sul protagonismo dei musicisti italiani, in particolare siciliani, emigrati negli Stati Uniti nella formazione delle prime band e nell’incisione dei primi dischi jazz - privilegia, più che l’aspetto musicale, il racconto politico e di costume.
«La focosa» Baker
Avvisaglie si erano già manifestate nel 1929, quando il debutto italiano della Revue Nègre di Josephine Baker è bloccato dalla censura. Alludendo a una scenata di gelosia della Baker nei confronti di un ballerino spagnolo, Radio Orario, come allora si chiamava il futuro Radiocorriere, scrive che «evidentemente la focosa Giuseppina non ha voluto perdere un’occasione per dimostrare di essere realmente consanguinea di Otello».
Anche nelle arti bisogna diventare autarchici: oggi diciamo sovranisti. Mentre la Chiesa cattolica teme il decadimento della pubblica morale e invita le ragazze a non uscire la sera a ballare, viene creato un Ente Nazionale per la Musica Sinfonico-Vocale il cui scopo è contrastare «il dilagare di musiche esotiche, fatte di suoni contorti e selvaggi, che ha malauguratamente contribuito a far cadere in disuso i canti sgorgati dalla semplice e spontanea vena popolare. Il nostro popolo ha in gran parte perduto il senso artistico nazionale». Nonostante l’Eiar (l’ente radiofonico di Stato) informi il regime che il pubblico ama quella musica, il Sindacato Fascista dei Musicisti va all’attacco: il jazz esprime «il primitivismo musicale dei negri, le barbare musiche negre imbastardite e incanagliate». È la difesa della razza in ambito musicale.
George Gershwin non è nero ma ebreo e la sua musica viene bandita. Analogo destino attende il jazz in Germania e in Russia: le dittature lo temono più di quanto i nazisti detestino l’«arte degenerata» o i sovietici il «formalismo borghese e antipopolare». Perché il jazz, che il nazismo definisce nientemeno che «musica bolscevica, giudaica e negroide», è fisico, ancestrale. È sexy: caratteristica oggi purtroppo perduta. La sua festosa, improvvisativa verve è irrigidita, anchilosata.
Anche le sorelle del Trio Lescano sono, forse, ebree. Si avviano indagini e infine Arturo Bocchini, capo della polizia, interviene in prima persona: «Avvertesi che Alessandra, Giuditta e Caterina Leschan di Alessandro essendo state riconosciute come non appartenenti razza ebraica (ripetesi non) possono continuare a risiedere nel Regno ed essere autorizzate in via provvisoria a svolgere attività artistica».
Attraverso il jazz, questo libro racconta la violenta determinazione censoria e razzista della nostra classe politica dominante, soltanto poche generazioni fa.