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 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Intervista a Max Hollein, direttore del Metropolitan Museum di New York

Viennese, 48 anni, studioso di fiamminghi del ’600, munito di master in business administration, ama la musica elettronica e diventa showman in caso di ricerca fondi. Max Hollein è l’uomo della provvidenza che sta pilotando verso il futuro il Metropolitan Museum di New York, maggiore istituzione americana e tra i massimi al mondo, con i suoi 186.000 metri quadrati e 7,35 milioni di visitatori l’anno in tre sedi - l’edificio sulla Quinta Strada, i Cloisters, il Met Breuer, acquistato nel 2015 (costruito da Marcel Breuer nel 1931 come il Whitney Museum in Madison Avenue).
Il costo dell’entrata, prima a discrezione, ora è di 25 dollari per i «non newyorkesi», un aiuto utile per l’altalenante Met Breuer. Max, come lo chiamano anche i portieri, parla con accento tedesco, elegante, misurato. Direttore da aprile, è attivo da agosto; prima ha lavorato al Guggenheim di New York con il mitico direttore Thomas Krens, appena 31enne era già capo dello Städel Museum di Francoforte, poi due anni alla guida del Fine Arts Museum di San Francisco, ed era in predicato per il parigino Centre Pompidou. Il padre, l’architetto Hans Hollein, premio Pritzker 1985, lo voleva artista: è cresciuto vicino a Warhol, Beuys, Oldenburg, è un efficace organizzatore di mostre d’arte moderna e contemporanea, da Picasso a Jeff Koons. Stipendio annuo, pare, poco meno di un milione di dollari. Nel suo ufficio con grande tavolo ovale e vista su Central Park parla della modernizzazione in atto per migliorare l’offerta ai visitatori. Anche in vista dell’anniversario dei 150 anni nel 2020. 
Direttore, quali cambiamenti si propone?
«Parlerei piuttosto di evoluzione d’un museo che guarda al mondo, copre oltre 5000 anni di arte nell’intero globo, è leader nell’istruzione, nelle espressioni artistiche, mostre ed eventi, ma anche nelle discussioni, stimola idee nuove e connessioni sorprendenti attraverso il tempo e i Paesi».
Lei segue il «canone globale» della storia dell’arte: che cosa significa?
«La mia priorità è far capire più a fondo gli sviluppi delle culture, interconnesse anche in passato. Oggi il museo non è più solo il luogo dove guardare, deve dialogare col visitatore e mostrare dinamismo e fluidità, illustrare i legami con Paesi, tradizioni, linguaggi. Prima imperava il criterio cronologico pure per l’arte moderna. Ora si raccontano sviluppo e connessioni tra regioni geografiche e popoli come Colombia, isole del Pacifico e Nigeria. Il Met dispone di 70 milioni di dollari per rinnovare, dal 2020 al 2023, la Michael Rockefeller Wing, la sezione di Africa, Oceania e Americhe. Sono gallerie di 4000 metri quadrati circa ora ridisegnate e immaginate in dialogo tra loro e con l’intero museo dall’architetto Kulapat Yantrasast dello Studio wHY. Solo il Met consente di muoversi dalle tradizioni greche e romane a quelle che hanno ispirato il Rinascimento e a quelle extra-europee che hanno dato vita al Modernismo, ci sono paralleli e contrasti attraverso i cinque continenti».
Una novità riguarda l’arte moderna e le collezioni del Met Breuer che da Madison lei vuol trasferire qui.
«La mia priorità è questo edificio nella Quinta Strada: è inutile avere un satellite, il Breuer continua con le proprie raccolte e 15 mostre annue fino al 2020, poi si sposta qui, il palazzo viene affittato per 5 anni alla Frick Collection». 
New York vanta importanti musei di arte moderna e contemporanea: MoMa, Whitney, Guggenheim: serve averne un altro?
«Non siamo in competizione con gli altri, sono diverse la qualità e la narrazione: noi non puntiamo all’acquisto di opere da milioni di dollari, ma al modo di presentarle, voglio offrire un aiuto reale alla comprensione dell’arte moderna e contemporanea in un’ottica globale. Il Met possiede importanti donazioni del XX e XXI secolo (compresa quella recente di Leonard A. Lauder dei Cubisti), dipinti, sculture, disegni, quindi non è una novità, ma saranno presentati in una visione non solo occidentale: negli Anni 50 che cosa succedeva in Egitto? E nei 60-70 in Asia? Il Met ha ampliato le sue raccolte con acquisti in tutto il mondo,. L’ultimo è stato a un’asta il dipinto dell’artista egiziano Abdel Hadi El p-Gazar. Siamo un museo enciclopedico».
E quanto al contemporaneo?
«Vogliamo amplificare e raccontare l’esperienza attuale e spiegarne la complessità. Per due mesi l’anno ci saranno committenze temporanee, gli artisti invitati interverranno con azioni e installazioni nella grande hall all’entrata, altri creeranno sculture nelle otto nicchie vuote sulla facciata dell’edificio. Voglio il meglio per il Met».
Quanto aiutano gli sponsor?
«Sono molto generosi, per esempio disponiamo di 22 milioni di dollari per rinnovare entro il 2020 le dieci gallerie delle Arti e sculture decorative britanniche, altri 150 milioni entro il 2022 per il rifacimento già in atto dei lucernari nelle gallerie della pittura europea. Anche l’ala Sud-Ovest viene ridisegnata da Chipperfield, costa 600 milioni ed è in corso un fundraising».
Con tanti lavori in corso come programmate le mostre?
«Continueremo con 50 ogni anno, alcune importanti come il Delacroix che abbiamo ora. Abbiamo appena inaugurato la panoramica Astrazione etica: da Pollock a Julio Herrera, il 23 gennaio al Met Breuer ci sarà l’ampia personale di Lucio Fontana, il 5 marzo celebreremo il Giappone nella tradizione letteraria e figurativa con La storia di Genij, il 18 marzo Arte e identità nell’antico Medio Oriente, sugli scambi commerciali e religiosi tra Petra, Palmira, Sidone e Balbeck, l’8 aprile aprirà una rassegna degli strumenti del rock & roll. Quanto all’Italia, ci sono molti progetti, pensiamo al Rinascimento, ai Senesi».
Il presidente Macron intende restituire ai paesi d’origine le opere simbolo africane: pensa che dovreste farlo anche voi?
«Macron ha il complesso delle loro colonie, non è il nostro caso».