Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Intervista a Carlo Ancelotti, mister antistress

Carlo Ancelotti è un uomo risolto. Non ha niente da dimostrare, meriti da rivendicare, dogmi da difendere («Non c’è un solo calcio, non esiste l’Università del calcio»), rimostranze da far valere. La ragione potrebbe essere in tutte quelle foto che tappezzano il suo ufficio («Non le ho messe io, eh, è stata una gentilezza del presidente De Laurentiis») che ricordano le vittorie ottenute in tutta Europa. Ma il sospetto è che la ragione sia un po’ più profonda. Gli esempi di vita («Mio padre e Liedholm, su tutti») e un po’ di genetica. Sta bene con se stesso. Sta bene a Napoli («perché non mi prendo troppo sul serio»), che sia quella esclusiva dove ha preso casa e da dove ammira il golfo, che sia la terra «con 15 mila irregolari» di Castel Volturno, che studia con curiosità e disincanto. In ogni caso non sa cosa sia lo stress, anzi, ha trovato una medicina geniale: l’altruismo.
Ancelotti, lei è tornato in Italia dopo tanti anni. Che Paese ha trovato? 
«L’Italia è bellissima, il Paese più bello del mondo. Poi c’è chi vive meglio e chi peggio ed è un po’ più arrabbiato, ma tempo fa sentivo un discorso di Farinetti: ha detto che noi abbiamo la fortuna di essere nati in Italia. Concordo». 
Veniamo al calcio: il lungo dominio della Juve è un problema per il movimento? 
«Direi di no, non abbassa la passione degli altri tifosi per la propria squadra, anzi». 
Vede segnali di rinascita del nostro calcio? 
«Sì: in campionato c’è una buona qualità di gioco; la Nazionale ha inserito giovani interessanti; c’è un nuovo presidente della Federazione con idee chiare. Il movimento è destinato a crescere. Certo, se ci fosse un incentivo a fare stadi nuovi e a migliorare la cultura dentro...». 
Lei il suo contributo l’ha dato, con la battaglia contro i cori razzisti. 
«Qualche passo è stato fatto, la Federazione si è esposta. A Bergamo la gente ha capito. Ci sono due modi per convincere le persone: la persuasione e la percussione...». 
Questa è di Sacchi. 
«Sì!». 
Ed è una chiave di lettura del suo modo di essere. 
«Sì, io sono per la persuasione. Il cavallo salta l’ostacolo sia con la carota sia con la frusta. Il problema è dopo: se ti capita di passargli dietro... Io ho sempre avuto attorno persone pacate, mio padre, Liedholm, il mio carattere nasce lì. Non posso essere autoritario se non sono capace: devo essere credibile». 
Fabio Capello ha ripetuto che la serie A non è allenante, condivide? 
«Dal punto di vista tattico, lo è molto. In Italia ti abitui a curare ogni dettaglio. I ritmi di gioco sono più bassi e quindi da un punto di vista fisico è meno allenante». 
Quale allenatore andrebbe a studiare oggi? 
«Uno che conosco poco, direi Klopp o Pochettino, perché Allegri, Simeone, Spalletti, Guardiola so già come lavorano. È sempre interessante vedere come un allenatore si comporta, ma copiare è impossibile. Eppure c’è chi non fa vedere gli allenamenti». 
Ci sono anche allenatori che pensano che esista un solo modo di giocare a calcio. 
«No, non c’è una sola verità. Non c’è un’Università del calcio, non è che prendi la laurea». 
Maurizio Sarri però la sua Università a Napoli l’aveva eretta: la sua era una lezione che i giocatori avevano mandato a memoria. 
«Qua c’era una squadra che aveva un’identità ben precisa, noi cerchiamo di averla un po’ più versatile. I campionati li ha vinti chi ha giocato a uomo, chi ha fatto il possesso palla, chi ha fatto il contropiede, chi non faceva ritiro, chi lo faceva…». 
Come si tiene alta la concentrazione di una squadra che, pur facendo il record di punti, è arrivata seconda? 
«Io credo che ognuno di noi deve motivarsi non attraverso il confronto con gli altri, ma con il confronto con se stesso. Se tu hai come obiettivo diventare Messi, be’ il tuo percorso è influenzato dalla genetica. Invece ogni giorno puoi allenarti per essere migliore. Vale anche per la squadra: se dico impegniamoci per battere la Juve è un obiettivo troppo lontano...». 
Com’è riuscito a inserire le sue idee nella macchina perfetta di Sarri? 
«In modo graduale. L’unica cosa cambiata è stata la disposizione in fase difensiva, dal 4-3-3 al 4-4-2, per me è la più efficace. Ho parlato con qualche giocatore, Allan e Diawara, mi hanno dato la loro disponibilità, altrimenti non l’avrei fatto. C’era la sosta per la Nazionale, l’abbiamo provata 20 minuti...». 
A proposito: a livello tattico dove sta andando il calcio? 
«Secondo me il progresso è regresso. Esempio: adesso tutte le squadre cercano di giocare a calcio, anche le piccole, che va bene, ma si perde un po’ di combattività e applicazione in difesa. Altro esempio: le squadre cercano di giocare da dietro, utilizzano il portiere: tra poco cambierà, perché si vedono rischi eccessivi, si tornerà alla vecchia palla lunga». 
Lei ha definito il Napoli competitivo: ma per cosa? 
«Per vincere. L’obiettivo è una squadra che arriva alla fine del campionato lottando». 
Direbbe ancora: «Siamo dei coglioni se usciamo dalla Champions»? 
«Ma io intendevo: saremmo coglioni a uscire per un mancato risultato contro la Stella Rossa. Invece siamo stati in ballo fino all’ultimo contro una squadra, il Liverpool, candidata a vincere la coppa. Come il Psg, il Barcellona e la Juventus, che però ha un ostacolo difficile nell’Atletico Madrid. Il Real senza Ronaldo invece è meno competitivo». 
Ora affrontate l’Inter, che vive un momento delicato. 
«Non so, danno l’impressione di essere una squadra e una società in crescita, ogni anno inseriscono giocatori importanti». 
Che rapporto ha con Spalletti? 
«È un amico, mi è venuto a trovare a Madrid quando era fermo. Io ho un rapporto di stima un po’ con tutti i colleghi. E poi ora tanti miei giocatori allenano: Gattuso, Inzaghi, Nesta, Oddo». 
A Gattuso fa qualche seduta telefonica antistress? 
«Lui è molto coinvolto, all’inizio è così: hai meno certezze, ti fidi poco degli altri, cerchi di fare tutto tu. Poi capisci che è fondamentale dedicare un po’ di tempo a te stesso. Quando ho iniziato stavo 24 ore al giorno sul pezzo, era il ‘96 e ho detto: nel 2000 smetto. Siamo nel 2018...». 
Negli ultimi anni al calcio italiano è mancata Milano. 
«Le vicende societarie hanno inciso. Ora sembra che l’Inter si sia sistemata, c’è un progetto chiaro. Il Milan è più in via di definizione: il fondo Elliott in 5 anni cercherà di portare il club ad alto livello e poi arriverà un altro proprietario». 
Ma lei è stato davvero vicino a tornare al Milan? 
«Due volte. Quando sono andato via dal Real Galliani è venuto a caccia a Madrid, ma dovevo riprendermi da un problema alla cervicale. E poi un’altra volta con Fassone c’è stato un mezzo tentativo, dopo il Bayern». 
Cosa la fa arrabbiare in un giocatore? 
«Chi non gioca e si allena male mi fa andare fuori di testa. Accetto che uno si arrabbi, non che si alleni male: è egoismo perché fa un danno a tutta la squadra. L’attenzione va spostata sugli altri, non su se stessi. Ho letto che il 90% degli americani tra i 15 e i 21 anni soffre di stress. E il motivo è che c’è un eccesso di egocentrismo. La medicina è una sola: se siete stressati siate più altruisti». 
È per questo che lei non è stressato? 
«È perché mi piace quello che faccio». 
Nel Napoli entrano ed escono un po’ tutti, tranne Koulibaly. È il suo insostituibile? 
«Non lo posso negare. È un fuoriclasse, faccio più fatica a fare a meno di lui». 
Il turnover è anche una mission aziendale? 
«Il turnover motiva più i giocatori e allontana gli infortuni. È chiaro che la società si aspetti che i giocatori siano valorizzati, ma no, De Laurentiis non mi ha chiesto di fare turnover». 
A proposito: tre aggettivi su De Laurentiis? 
«Schietto, generoso e curioso. Io e lui parliamo pochissimo di calcio. Mi dà le chiavi della squadra, si fida e io gli sono grato». 
Cosa chiede Ancelotti a Babbo Natale? 
«Non chiedo niente, sono soddisfatto così».