Corriere della Sera, 23 dicembre 2018
E Luca aggiunse la mangiatoia
«Ed ella partorì il suo figliuolo, e lo fasciò, e lo pose a giacere nella mangiatoia; perciocché non vi era luogo per loro nell’albergo». Così dice (nella traduzione del Diodati) il settimo versetto del secondo capitolo del terzo Vangelo, scritto da Luca. Ed è stupefacente pensare che dell’albergo affollato e della mangiatoia, se non fosse stato per Luca, nessuno mai avrebbe saputo niente. Gli altri evangelisti infatti non ne fanno parola. Ma com’è possibile? La cosa non è stranissima, dopotutto. Si può capire che gente pratica come Matteo, l’ex pubblicano, e il pur minuzioso, accuratissimo Marco, non vedesse nella mangiatoia o «presepio» (secondo la traduzione latina approvata da San Gerolamo) che una circostanza accessoria e del tutto trascurabile. E a maggior ragione Giovanni, sempre intento a confutare eresie o immerso nelle sue speculazioni teologiche, dovette considerarlo un particolare superfluo. Resta che su questo particolare e su un altro – ugualmente «superfluo» – poggia la specialissima, miracolosa suggestione della Natività: da cui dipende poi in qualche modo l’intera colorazione poetica del cristianesimo. Togliamo infatti il bambino dalla mangiatoia, facciamolo nascere altrove che in una stalla (ma dove? qualsiasi altra collocazione è ormai inimmaginabile), e tutta l’iconografia cristiana impallidirebbe, o cambierebbe decisamente colore.
L’altro «particolare superfluo» è di nuovo Luca e soltanto Luca a riferirlo:
«Ora (cioè: quando il bambino nacque) v’erano in quella stessa contrada dei pastori che vegliavano, e facevano di notte la guardia intorno al loro gregge. Ed ecco giunse tra di essi l’Angelo del Signore...».
Certo, si tratta solo di un preludio. L’attenzione si sposta subito sull’Angelo che annuncia la buona novella, poi sulla «schiera celeste» che sopraggiunge cantando gloria in excelsis Deo, e infine sui pastori che s’affrettano a Betlemme per adorare il bambino nel presepio.
Intanto però e quasi di sfuggita, senza quasi che ce ne accorgessimo, Luca ha dato al quadro della Natività il suo fondo prodigioso. Ma per farlo non ha avuto bisogno di ricorrere al soprannaturale. Gli è bastato ricordare con un minimo di parole (i pastori che vegliavano, che facevano la guardia di notte) un fatto semplicissimo di cui né Matteo, né Marco, né Giovanni intuirono il valore poetico, l’immensa portata figurativa: il fatto che il Natale fosse di notte. La «notte di Natale», appunto.
Nelle sale dell’Accademia di San Luca, a Roma, accanto a un Annuncio ai pastori di Jacopo Bassano, c’è un quadro tradizionalmente attribuito a Raffaello, in cui Luca è rappresentato al cavalletto, nel suo studio di pittore, mentre fa il ritratto alla Madonna. Ritratti della Madonna popolarmente attribuiti a San Luca, d’altra parte, si trovano in diverse chiese e santuari d’Oriente e d’Occidente. Ce n’è uno a Treviri, in particolare; un altro a Oropa (ma si tratta in realtà di una statua, portatavi sembra da S. Eusebio); un altro a Roma in S. Maria Maggiore; e un altro pure a Roma, nella cappella della Scala Santa, a fianco di un’immagine achiropita (cioè: «non dipinta da mano umana») del Salvatore.
Secondo un’antichissima tradizione, infatti, l’autore del terzo Vangelo era pittore, anche se a detta di San Paolo (nella quarta Lettera ai Colossesi) faceva il medico. Una cosa comunque non esclude l’altra, e bene hanno fatto i pittori a considerarlo sempre il loro patrono, intitolando a lui le proprie corporazioni, accademie e confraternite.
Perché sta di fatto che il suo libro – «il più bel libro che esista», a giudizio del Renan – è già esso stesso un seguito di stupende figurazioni pittoriche. Si pensi a quell’altro miracolo figurativo che è l’Annunciazione: neanche questa esisterebbe, se Luca non l’avesse dipinta nel suo Vangelo in sostituzione del prosaico, sbrigativo «Sogno di San Giuseppe» riferito da Matteo.
Strano invece che sia stato Matteo e non Luca a dirci dell’Adorazione dei Magi e della Fuga in Egitto. Ma entrambi gli episodi sono strettamente legati alla Strage degli Innocenti, e questa scena di cruenta ispirazione, molto più vicina al vecchio testamento che al Nuovo si capisce che uno come Luca non si sentisse di rappresentarla.
Del resto aveva già dipinto il presepio, aveva rappresentato l’Adorazione dei Pastori (i quali senza du bbio portarono anche loro qualche umile regalo), e non lo convinceva l’idea di Matteo che i Magi fossero andati a casa del bambino. («Ed entrarono in casa, e trovarono il bambino con sua madre....», Matteo 2,11). Per cui ci rinunciò, lasciando ai pittori futuri di provvedere – come infatti provvidero – a rifare tutta la scena secondo le sue indicazioni.
Quanto alla fuga in Egitto, Matteo ne dà notizia ma non la descrive; dice solo che Giuseppe fu avvertito da un angelo (in sogno, come d’abitudine) per cui «svegliatosi, prese il bambino e sua madre e si ritrasse in Egitto». Ma allora da dove viene il mirabile, imprescindibile asinello? Viene anche lui dalla stalla di Luca, a cui i pittori hanno pensato bene di rifarsi anche in questo caso. Tant’è vero che spesso, nelle figurazioni più antiche della Fuga, è presente anche il bue.
Ora l’asino e il bue, per la verità, neanche il terzo Vangelo li nomina esplicitamente. Il primo a farne parola è un vangelo apocrifo del VII o VIII secolo. E anzi, sempre per la verità, la stessa «grotta» della Natività non compare in tutte lettere che nell’apocrifo Libro di Giacomo, che è della fine del II secolo.
Luca infatti, sia nella prima scena che all’arrivo dei pastori, nomina soltanto la mangiatoia. Ma come negli indicibili «notturni» di Rembrandt, la forza evocativa è tale da far emergere a poco a poco dal buio ogni contorno: lasciando solo indeterminato se si trattasse di una grotta vera e propria, o dei resti di un edificio in rovina adibiti a stalla.
Questa seconda interpretazione incontrò favore soprattutto nel Rinascimento, quando le rovine, in associazione con la nascita di Cristo, vennero a simboleggiare il declino del paganesimo. Ne sono esempi tipici le due Adorazioni – rispettivamente dei Pastori e dei Magi – di Domenico Ghirlandaio a S. Trinita e del Botticelli agli Uffizi. E c’è poi, più misteriosa, più fantastica di tutte, l’incompiuta tavola di Leonardo pure agli Uffizi, dove la scena è dominata dai ruderi di immense e vertiginose arcate. Ma chi può dire che lo stesso Leonardo, in questa tavola, non si sia ispirato a Luca e ai suoi «effetti speciali» di Natale?