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 2018  dicembre 22 Sabato calendario

Il diario di scrittura di Paolo Cognetti

Ho scritto Senza mai arrivare in cima su un quaderno nero, a righe, morbido ma robusto, che mi aveva regalato Mauro Corona quasi un anno prima. Mauro era stato molto generoso con me all’uscita del mio romanzo: l’aveva letto ancora in bozze, aveva accettato di presentarlo in un festival letterario, e in quell’occasione mi aveva portato uno dei suoi quaderni e la sua penna preferita. Il quaderno era rimasto in baita, su una mensola vicino alla stufa, per un intero inverno e una primavera e un’estate, aspettando che il momento della scrittura tornasse. Quando lo incrociavo con lo sguardo mi sembrava che mi ricordasse la cosa più importante, e di non distrarmi troppo con tutto il resto. In autunno finalmente venne in Nepal con me: avevo davanti un lungo cammino su un altipiano al confine con il Tibet, e lì dentro volevo scrivere quel che avrei visto.
Non so se in qualche biblioteca esista un genere chiamato «scrittura del paesaggio», nella mia sì. Su quegli scaffali custodisco i taccuini dei viaggiatori (Chatwin, Terzani, Tesson), le memorie dei luoghi abitati (Blixen, Hemingway), le osservazioni del mondo naturale (Thoreau, Rigoni Stern). Non importa che sia Parigi o la taiga siberiana, il paesaggio è ciò che abbiamo intorno, ciò che è fuori da noi: i grandi scrittori sono capaci di renderlo vivo, di costruire una relazione tra quel fuori e la propria personalità, la propria storia, indagando se stessi insieme all’anima di un luogo (Tiziano Terzani e l’Asia, Karen Blixen e l’Africa, Mario Rigoni Stern e l’Altipiano di Asiago). «La città non rispose»: così suona l’ultima riga di un vecchio racconto di Erri De Luca, che amo molto. Lo sguardo interroga, il paesaggio risponde o rimane muto; la scrittura del paesaggio è trascrizione di questo dialogo.
E c’è qualcos’altro che ho scoperto praticandola a mia volta. Sento che mi cura dalla claustrofobia del romanzo tanto quanto il viaggio mi porta via da casa. Voglio dire che anche il romanzo è una casa: è una casa che abiti per anni insieme ai tuoi personaggi, che esistono solo per te, dunque è una sorta di casa stregata; è una casa piena di specchi e senza finestre, perché la realtà che hai intorno non penetra in quelle stanze, sono versioni della tua stessa immagine quelle che ti circondano. Io certe volte non ne posso più di stare lì dentro, ho bisogno di uscire, camminare, respirare. Sento che la scrittura del paesaggio rappresenta questo per me, è un prendere aria che poi, a ben vedere, ha qualcosa a che fare con la parola ispirazione. Cercare ispirazione è cercare aria, uscire dalla propria casa ispira nuova scrittura.
In viaggio ho sempre un libro con me, o anche più libri, ma meglio se di un autore solo. Mi piace che diventi il mio compagno di viaggio. È un maestro che mi indica le cose e mi insegna a capirle, ma finisce per essere anche un amico intimo. Questa volta il libro era Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen, un autore poco conosciuto in Italia ma ben noto agli amanti di nature writing americano, e addirittura di culto in Nepal, dove il Leopardo è esposto in lingue ed edizioni diverse nella vetrina di ogni libreria (può sembrare strano, ma a Katmandu le librerie sono parecchie). Matthiessen sta al Nepal come Chatwin alla Patagonia, come Castaneda al Messico: quel tipo di viaggio esistenziale fu compiuto da Peter nell’autunno del 1973, a quarantasei anni, ufficialmente per andare a studiare le pecore azzurre dell’Himalaya e il leopardo loro predatore, intimamente per uscire da una lunga stagione di illusioni, e cercare ciò che non è illusorio nella montagna, nella solitudine, nel cammino, negli sperduti monasteri tibetani. Divenne un «pellegrinaggio in Oriente», per usare un titolo di Hermann Hesse che quella tensione verso l’Asia l’aveva raccontata tra i primi, e un breviario per i pellegrini come me, che sarebbero venuti dopo. Io avrei ripercorso lo stesso sentiero di Matthiessen quarantacinque anni dopo. Lui, Hesse e Terzani erano gli autori che sentivo più vicini durante il cammino.
C’è molto tempo per leggere e scrivere in un viaggio del genere. Uno parte pensando che le giornate saranno faticose e impegnative, e questo è vero, ma non si può camminare in montagna per più di sei o sette ore al giorno, se lo si fa per venti giorni di fila. Uscivamo dalla tenda al sorgere del sole e poco dopo mezzogiorno piantavamo già il campo dove avremmo passato la notte. In un mondo senza telefoni, computer, televisori, mi pareva di essere tornato all’adolescenza, a quel tempo del tutto vuoto in cui per arrivare a sera non restava che parlare con un compagno, o aprire un libro. Il momento della scrittura arrivava verso il tardo pomeriggio. Una borraccia di whisky scozzese era il mio unico genere di conforto, la centellinavo perché arrivasse alla fine: al freddo dei quattromila metri, con la tosse e la febbriciattola che vengono sempre in alta quota, bevevo whisky diluito in acqua bollente, un toccasana. Nel quaderno non mettevo alcun pensiero. Mi ero dato la regola ferrea di descrivere soltanto quello che vedevo, insieme al divieto di fare fotografie. Volevo che la macchina fotografica fosse il mio occhio collegato alla mia mano, e nel tempio più sacro che incontrai, una sorgente che scaturiva da una parete di roccia dove tutto era arido e deserto, mi bagnai le palpebre e le labbra ed espressi questa preghiera: fa’ che io abbia occhi buoni per guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto. Sento che lì c’è il senso della mia scrittura.
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