Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto
Ormai hanno passato i settanta o gli ottanta, ma ancora si trovano persone che ricordano la sera in cui hanno visto Jimi Hendrix come un momento decisivo della loro vita, uno tra gli eventi che l’hanno resa degna di essere vissuta; io provo quella sensazione riguardo a Roger Federer. Dopo averlo visto giocare un’unica volta in precedenza – e spazzare via un avversario ormai dimenticato in un’eliminatoria di Wimbledon del 2012 – l’anno scorso ho assistito da bordocampo a tutti gli incontri, nessuno escluso, che lo hanno portato alla conquista del titolo sia a Indian Wells che a Wimbledon. È stato un grandissimo risultato – che io fossi lì a vederlo, intendo. A Indian Wells ho partecipato con un amico alla conferenza stampa tenutasi dopo che Roger aveva battuto Jack Sock in semifinale. Quando è entrato in sala e lo abbiamo visto da vicino per la prima volta, tutti e due – io vicino ai sessant’anni, il mio amico cinquantaduenne – ci siamo ritrovati con il fiato mozzo come due ragazzette che intravedono uno scorcio di Justin Bieber o del suo attuale successore, chiunque egli sia. A paragone di certi altri fusti del circuito internazionale, e soprattutto in confronto al suo eterno rivale Rafael Nadal, le braccia di Federer sembrano quasi gracili; poi visto da vicino assomiglia a un dio greco, solo che la sua tipica agilità in campo distrae il pubblico dalla forza fisica che ormai da anni alimenta l’eleganza e la scioltezza di movimenti che lo contraddistinguono. Come per i ballerini classici, una parte del suo talento sta nella capacità di nascondere la fatica necessaria a far sembrare la grazia del tutto spontanea. È stato sempre a Indian Wells, nel vedere la folla che si radunava intorno al campo ben prima dell’orario in cui era previsto il suo allenamento, che ho iniziato a chiedermi sul serio che effetto possa fare essere Roger. Vale a dire, non solo essere considerato il più grande tennista di tutti i tempi, ma anche essere amato e adorato fino a questo punto. Come molti altri, volevo bene a Roger già da tempo; e poi, più o meno cinque anni fa, mi sono reso conto che gli volevo più bene che mai. E questo a causa della sua vulnerabilità. Ai tempi in cui vinceva qualunque cosa e batteva chiunque – salvo Nadal al Roland Garros – tutti davamo per scontata la sua grandezza; poi si sono cominciate a vedere le crepe. C’è stata la difficoltà a colpire di rovescio le palle alte in topspin di Nadal, all’inizio sulla terra battuta e poi su tutte le superfici; c’è stata la pura spietatezza di Novak Djokovic; ci sono stati gli sporadici quanto fastidiosi infortuni. C’è stata anche – e vi accenno dopo le questioni legate al tennis sebbene le preceda tutte – la sua sconcertante decisione di presentarsi in campo a Wimbledon nel 2006 sfoggiando una giacca color crema che pareva più adatta a una festa in giardino da Jay Gatsby che a un torneo di tennis. (Il cardigan con le cifre del 2008, almeno, aveva il pregio di essere un capo sportivo... per quanto, in stile torneo di croquet Anni 20). È stato dopo tutto questo, ma molto prima dell’incidente al ginocchio e dell’operazione chirurgica che lo hanno costretto alla pausa durante la stagione 2016/ 17 e infine condotto alla resurrezione, che la mia – la nostra – adorazione ha raggiunto la fase della piena maturità. Eravamo contenti che avesse ripreso a giocare, dandoci la possibilità di vederlo sia pure solo in televisione, benché in apparenza si fosse attestato uno schema per cui Roger superava a gonfie vele le eliminatorie per poi scontrarsi con la vorticosa potenza del sinistro di Nadal o con il muro balcanico dell’implacabile difesa di Djokovic. C’è da chiedersi, inoltre, se l’osservazione di Nietzsche –” Il merito di una grande vittoria è che libera il vincitore dalla paura della sconfitta” – non possa aver giocato un ruolo in questa fase post-onnipotente della sua vita, specialmente se anziché “vittoria” diciamo “vittorie": “Perché non perdere anche, una volta tanto”, dice il campione tra sé, “ora che sono ricco abbastanza da permettermelo?”. Con l’accumularsi degli smacchi si è però evidenziato anche qualcos’altro. Il Roger vincente era sempre stato generoso – il che ovviamente gli veniva facile – però nella sconfitta annaspava. Perdere contro Nadal in Australia nel 2009 lo ridusse in lacrime ("Oddio, mi sento morire"), mettendo il suo garbo a dura prova. Ma di lì in poi, la sconfitta è diventata un fatto che Roger accetta con una cortesia proporzionata alla sua bravura. Va sottolineato che non è il solo a mostrare tanta sportività: Rafa è stato persino più generoso di lui a Melbourne, smorzando parecchio i festeggiamenti per via dell’affetto che nutriva verso il re appena deposto. Dunque, per quanto possa non essere unico per magnanimità nella sconfitta, Roger è senz’altro un elemento cruciale nell’età d’oro delle buone maniere tennistiche. E noi ci siamo talmente abituati a questo atteggiamento che adesso rimaniamo colpiti dalla mancanza di sportività, com’è accaduto quando Marin ?ili? – giocatore di spaventosa potenza e ancor più spaventosa noia – ha omesso anche solo di nominarlo nelle dichiarazioni fatte dopo che Federer lo aveva stracciato alla finale di Wimbledon dell’anno passato. Non che ce ne importasse molto. Contava solo che Roger avesse vinto il suo secondo slam del 2017, portando il proprio totale a diciannove, per poi aggiungerci quest’anno il numero venti e tornare per un paio d’istanti al primo posto in classifica. Aveva nuovamente dimostrato che il modo più efficace di giocare a tennis è anche il più bello, che estetica e vittoria possono andare a braccetto. Quella agli Open d’Australia dell’anno scorso era la vittoria a cui teneva di più, dopo tutte le volte in cui gli era sfuggita per un soffio; da quel momento in poi sarebbe stata tutta discesa. Per questo oggi è ancora più sereno, bonario, spiritoso e amabile. Sarebbe ingiusto dire che nelle interviste post-partita Kyle Edmund, in confronto a Roger, appare scontroso: Federer lusinga il suo pubblico, in molte lingue diverse, da ben oltre un decennio, e appare in televisione con lo stesso agio con cui la guarda seduto sul divano. (John Isner, dopo aver vinto quest’anno il suo primo titolo a Miami, ha scherzato sul fatto che ora sa come si sentiva Roger una settimana sì e una no). In gennaio a Melbourne le conversazioni del dopo partita tra Roger e Jim Courier diventavano più lunghe e gradevoli a ogni fase del torneo; Roger è arguto, è disinvolto, l’unica cosa che gli manca è un filo di... A eccezione forse di "rispetto", di questi tempi non c’è parola che venga adoperata peggio di " umiltà". Se uno scrittore o un attore dichiarano di aver accettato questo o quell’altro premio con la massima umiltà, di fatto stanno dicendo una cosa tipo: " Ce l’ho di un duro che non avete idea". Per fare un nome, Usain Bolt veniva sempre e invariabilmente definito " umile" malgrado passasse il tempo a vantarsi di essere una leggenda. Poi, non sono tronfi e non sono altezzosi, ma né in Bolt né in Federer c’è alcunché di umile; sono soltanto, tutti e due, informali e carini.
Io Roger non l’ho mai conosciuto di persona — anche se mi viene istintivo dargli del tu — ma tutti quelli a cui è capitato dicono la stessa cosa: che è carinissimo. L’anno scorso a Wimbledon un cronista seduto vicino a me mi ha raccontato di essersi trovato una volta in macchina con Ilie Nastase, che si comportò da cafone assoluto; allora un altro ha detto di essere stato in auto con Roger. Ecco, lui invece com’era? Ma la risposta la sapevamo già tutti: carinissimo.
Diversi anni fa George Saunders ha pubblicato un saggio in cui rievocava il periodo trascorso all’università di Syracuse, dove lo scrittore Tobias Wolff insegnava e faceva mentorato. Un giorno, dopo che sull’Atlantic era uscito un racconto di Wolff, Saunders lo intravede nel dipartimento di Lettere: "Eccolo lì: scrittore e cittadino insieme. Non so perché questo m’impressioni tanto — forse perché mi sono fatto, chissà come, l’idea che gli scrittori si muovano come in trance, screanzati, spinti alla maleducazione dal potere delle loro stesse parole. E invece, ecco qui l’autore di questo bellissimo racconto che se ne va in giro pieno di garbo". In seguito, dopo che Toby e la sua famiglia lasciano Syracuse alla volta della California, Saunders e la moglie si trasferiscono nella casa in cui prima abitavano i Wolff. Una sera George è seduto sulla veranda, invisibile nell’oscurità, quando passa una coppia. "Eh, Toby" sospira la donna. "Che uomo meraviglioso". E Saunders si ripromette: "Vivi in modo tale che, passando davanti a casa tua mesi dopo che te ne sei andato, i vicini non possano fare a meno di uscirsene con un commento affettuoso". La gentilezza, in altre parole, è un qualcosa a cui aspirare.
Fedele al suo proposito, l’ormai famoso Saunders è famoso anche per la sua gentilezza. E a loro volta i suoi allievi beneficeranno di questo retaggio e questa genealogia. Roger, a quanto pare, non è un gran lettore, ma fin da subito ha adottato questo aforisma come suo motto: " È gradevole essere importanti, ma è più importante essere gradevoli". Dopo che aveva battuto Andy Roddick in finale a Wimbledon nel 2005, lo stesso Roddick gli disse: "Mi piacerebbe moltissimo odiarti, ma sei troppo simpatico".
Ora, questa celebrazione del garbo non è, mi preme aggiungere, un elogio dell’insipidezza. C’è qualcosa d’inebriante nel modo in cui il pugno vittorioso di Fabio Fognini riesce a trasformare la terra rossa degli Open d’Italia nel vermiglio striato di sangue del Colosseo sotto il regno di Commodo. Se parliamo di gladiatori, il mondo sarebbe un posto ben più scialbo senza interviste post- incontro come quella in cui Mike Tyson, alienato dalla sua stessa cattiveria, dichiarò non solo che voleva strappare il cuore a Lennox Lewis, ma anche "mangiare i suoi figli". Il pugilato, bisogna tenerlo a mente, è un mondo a parte rispetto alle altre discipline sportive: anzi, secondo l’autrice Joyce Carol Oates non è affatto uno sport, e men che mai un gioco: si gioca a calcio o a tennis, ha scritto, " ma non si gioca a boxe". L’allenatore e mentore di Tyson Cus D’Amato s’impegnava al massimo affinché non ci fosse mai tregua, in nessuna circostanza, dal terrore che il suo spaventoso protetto ispirava. Ma se un’aura d’invincibilità per un tennista è senz’altro una risorsa — un continuo e spiazzante memento che il campione o la campionessa possono riaversi dopo due set e un tracollo — quell’aura è del tutto compatibile con l’affermazione di W. H. Auden secondo la quale è meglio essere " apprezzati che temuti". Perciò quando Stephen Tignor, nel suo libro Borg McEnroe, scrive che gli incontri fra lo stesso John McEnroe e Jimmy Connors erano "lotte al coltello", tocca pacatamente obiettare: " No, erano partite di tennis". Ammesso pure che le cose prendano una brutta piega, il contatto fisico fra tennisti è minimo, come quando Lukáš Rosol diede una spallata a Andy Murray durante un cambio di campo a Monaco nel 2015. " Ce ne fosse uno a cui sei simpatico", fu la risposta decisamente poco tysoniana di Murray una volta che i due si trovarono di nuovo uno di fronte all’altro in campo. "Nel circuito stai sulle palle a tutti".
Fatte le debite proporzioni, allora, a Indian Wells in marzo il più amato dal pubblico ha proprio sbroccato mentre perdeva contro Juan Martín del Potro e, per dirla con un mio collega di ateneo, " si è messo a fare lo stronzetto". Il che è vero, ma data l’intensità della competizione c’è da meravigliarsi che in campo non ci siano state più esplosioni del tipo che ha contrassegnato gli anni giovanili di Federer e quasi giunse a plasmare la personalità tennistica all’epoca del massimo splendore di McEnroe e Connors.
Si potrebbe dire che è facile mantenere la calma quando sei il più grande di tutti, ma è altrettanto vero che nel vasto mondo esterno al campo da tennis — o al set cinematografico, allo studio di registrazione o alla sala da concerti — gli eccellenti hanno mille e una possibilità di svelare al mondo di che pasta sono fatti. Di lì l’eterna giustificazione del vip beccato a comportarsi male o malissimo: "Non ero in me". O meglio, sarò anche stato in me, ma quello non era il vero me. Sia Susan Sontag che V.S. Naipaul, onore al merito, hanno sempre dato libero ed evidente sfogo ai rispettivi caratteracci; entrambi convinti che il peso della loro vocazione letteraria meritasse una dispensa dalle norme di buon contegno che sono invece praticate da quelli come Wolff, assai più stimato della Sontag come autore di narrativa, e come Federer.
Insieme alla sua abilità tennistica, per Roger il "garbo di fabbrica" è diventato una vendibilissima fonte di reddito. Proprio come da contratto era obbligato, quando lo sponsorizzava la Gillette, a tenere la barba sempre ben rasata, allo stesso modo il suo brand dipende dall’impressione di pacatezza che dà. Nel chiuso di un’abitazione o di un albergo, sarà uno che scaglia le uova contro il muro se la cottura non è di suo gradimento? O uno che tiene il muso per tutto il giorno se sua moglie Mirka fa anche solo un accenno ai bicipiti di Rafa o s’ingozza di cioccolatini Lindt? Non lo sappiamo, ma a quanto pare l’essere carino — che di certo faceva già parte del suo carattere di base — è anche diventato un’abitudine a forza di essere carino. (La metto così perché nel gergo del tennis non ci sono avverbi ma solo aggettivi; uno non serve bene, o poderosamente, ma solo "grande" o "potente"). Ad accrescere l’effetto della battuta di John Updike sulla fama — " una maschera che ti mangia la faccia" — l’immagine si è impressa nella psiche.
Questa è, in tutta evidenza, una lettera d’amore, ma potrebbe averla scritta chiunque o quasi: Roger è diventato una delle persone più amate del pianeta. Non è un intellettuale, ma è il tennista adorato da artisti e intellettuali. Non è particolarmente bello — il naso che si porta in faccia non sarebbe peggiorato granché anche trovandosi sul ring con Mike Tyson — ma la bellezza del suo gioco ammanta lui di splendore e induce noi a credere che Roger sappia vedere il bello ovunque. Le cose non stanno così: alla fin fine, anche lui è solo uno che gioca a tennis.
Quel che appare senz’altro vero, però, è che più noi lo amiamo, più lui diventa amabile. È come il concetto di dar?ana nell’induismo: se noi veniamo benedetti dalla visione delle divinità, esse a loro volta, grazie al fatto che le abbiamo viste, si fanno ancor più divine.
Per parte mia, ho la netta sensazione che se una volta potessimo uscire insieme ci troveremmo bene. Ho anch’io un gran senso dell’umorismo, Roger. Quella del naso era solo una battuta. È un naso pazzesco, che ti dona e con il quale, come dice Jack Nicholson in Chinatown, sono certo che ti piace respirare. Più nello specifico, se sei carino come tutti dicono, sono certo che riusciresti a trovarmi un posto nella tua tribuna riservata per la finale di Wimbledon di quest’anno. Anzi, caso mai non dovessi arrivare fino a quel punto, facciamo per i quarti?
A Wimbledon 2018 Roger Federer è stato eliminato ai quarti di finale dal sudafricano Kevin Anderson. Il tennista svizzero rimane comunque l’atleta con il maggior numero di vittorie, otto, nel prestigioso torneo inglese