la Repubblica, 23 dicembre 2018
In morte di Enzo Boschi
Tre terremoti hanno scosso la vita di Enzo Boschi, morto ieri a Bologna a 76 anni: due veri e uno presunto. L’Irpinia nel 1980 portò alla guida di un piccolo ente marginale, l’Istituto nazionale di geofisica, quel giovane allievo di Antonino Zichichi, un geofisico sconosciuto, ma con un accento e un acume aretino che non sarebbero passati inosservati. L’Aquila nel 2009 portò alla sbarra quello stesso scienziato, nel frattempo diventato uno dei più influenti del Paese. L’assoluzione dall’accusa di aver rassicurato la popolazione nel bel mezzo di uno sciame arrivò, dopo una condanna in primo grado, nel 2015. E non riuscì a portare via amarezza e lacrime.In mezzo, nel 1985, ci fu la decisione che Boschi e Giuseppe Zamberletti (fondatore della Protezione civile) presero dopo uno sciame in Garfagnana: evacuare la regione in un giorno nel timore che potesse arrivare un terremoto più forte. Non accadde e la popolazione tornò a casa confusa. Quella volta fu Zamberletti a risponderne per procurato allarme.
No, i terremoti non si possono prevedere. Boschi ha continuato a ripeterlo insieme a un messaggio affidato alla politica: bisogna costringere gli italiani a costruire bene le loro case. In nessun altro paese sismico le scosse procurano tante vittime come da noi. C’era però un altro compito che spettava a lui: costruire una rete capillare di stazioni sismiche, mettere in piedi un ente di ricerca per studiare quel che si muove sotto l’Italia, collegarlo alla Protezione civile, fondare in Italia una scuola di sismologia. Tutto questo oggi esiste grazie a Boschi, che ha guidato l’Ing prima e l’Ingv poi (l’ente ha cambiato nome nel ’99) dal 1983 al 2011. Proprio due giorni fa l’Istituto ha stabilizzato 149 precari storici che con lui avevano iniziato a lavorare. Negli anni, i 44 dipendenti iniziali sono diventati più di mille. «Il primo budget era 800 milioni di lire, oggi è oltre 100 milioni di euro» ricorda Tullio Pepe, ex direttore generale dell’Ingv a fianco di Boschi. Con quei 44 dipendenti l’Ing avrebbe dovuto gestire l’Irpinia. La scossa arrivò il 23 novembre 1980, alle 19,34. Il giorno dopo ancora non si sapeva dove fosse l’epicentro, quali fossero i comuni colpiti. I soccorsi si muovevano a casaccio. Molte delle 3mila vittime erano semplicemente rimaste sotto alle macerie troppo a lungo. Il presidente Sandro Pertini arrivò due giorni dopo e pronunciò un discorso da pelle d’oca: «A distanza di 48 ore non erano ancora giunti gli aiuti necessari. Dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione e di sepolti vivi. E i superstiti, presi da rabbia, mi dicevano: ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti».
Dopo quella tragedia il Paese corse ai ripari. Oggi la rete sismica dell’Ingv, con oltre 300 stazioni, è una delle più efficienti del mondo. Poi è arrivata l’Aquila, nel 2009, con quell’accusa per Boschi e i colleghi della Commissione grandi rischi di aver sottovalutato lo sciame e la possibilità di una scossa forte (l’esatto contrario della Garfagnana). «Ricordo l’arrivo dell’avviso di garanzia all’Ingv. Lui era incredulo» racconta Pepe. «È stata l’unica volta che l’ho visto piangere» ammette il collega e compagno di processo Giulio Selvaggi. «Sono passato dalla scienza a una vita di ansia e avvocati. Ho convissuto con l’accusa di essere un assassino», disse Boschi a Repubblica nel 2015, il giorno dell’assoluzione. In pensione, ferito dal processo, scherzava: «Se non avessi Twitter». I suoi 28mila follower sono un record per uno scienziato. E ieri, digitando il suo nome sui social, si mescolavano i messaggi di dolore e quelli di gioia degli assunti venerdì. «L’ultima beffa dell’aretino» ha twittato Pepe. «Morire subito dopo la stabilizzazione dei “suoi” precari».