La Stampa, 23 dicembre 2018
Nella “casa” di Marina Abramovic in contatto con sé stessi
Tre stanze aperte comunicano tra di loro sospese a un metro e mezzo da terra. Tre scale inaccessibili, con lame di coltello come pioli, le collegano al pavimento. Gli arredi sono minimali. Un letto di legno senza materasso, una sedia con i cristalli, un tavolo, una doccia, un lavandino e un water. Per dodici giorni, una giovane performer di origini finlandesi, Tiina Pauliina Lehtimäki, ha vissuto nell’opera di Marina Abramovic, installata a Palazzo Strozzi a Firenze, nell’ambito della sua personale (fino al 20 gennaio), voluta dal direttore Arturo Galansino, che ha già registrato oltre centomila visitatori. Il pubblico la «guardava vivere» durante il giorno scrutando ogni singola azione.
La giovane - scesa da quel «piedistallo» che rimanda ai celebri r
eadymade di Duchamp - è stata scelta per ri-performare The House with the Ocean View, l’azione realizzata da Abramovic nel 2002 alla Sean Kelley Gallery di New York. I gesti insignificanti del quotidiano hanno coinvolto il pubblico che ha percepito in silenzio il tempo lento della performer. I movimenti erano condizionati da enormi restrizioni, perché secondo Abramovic «occorre stabilire delle regole per essere liberi». Per tutta la permanenza nella casa con vista sull’oceano era proibito mangiare, parlare, scrivere. Bisognava fare la doccia tre volte al giorno, si poteva bere, fare pipì, magari cantare, e dormire solo sette ore a notte, i cellulari erano banditi. La performance, che ha richiesto una forte resistenza psicofisica, era già stata rifatta lo scorso giugno da Lyn Bentschik, un’altra giovane donna tedesca, alla Bundenskunsthalle di Bonn.
Invisibili percezioni
Per la fine dell’azione fiorentina Abramovic è tornata in Italia. L’abbiamo incontrata assieme a entrambe le ri-performer, Tiina e Lyn. Capelli raccolti, portamento da regina, l’artista serba ha precisato che «The Cleaner è una mostra viva perché, con i trentadue ragazzi formati ad hoc attraverso il “Metodo Abramovic”, sono state riportate in vita performance altrimenti destinate solo agli archivi. Un tempo la pratica performativa era terra di nessuno, ma oggi posso dire di avere cambiato lo statuto della disciplina, perché trasferire le azioni nel tempo e nello spazio ad altre generazioni ha posto l’opera in una dimensione trasformativa di vita e continuità».
Commossa nel vedere rifare l’azione che seguì al trauma dell’11 settembre, Abramovic ha resistito solo cinque minuti di fronte alla giovane esile e minuta che, come lei, ha indossato gli abiti ispirati ad Aleksandr Rodchenko. «Mi è sembrato un lunghissimo unico giorno», ha detto Tiina, «e comunque mi sentivo a casa. Oggi per me è la normalità a essere surreale. La notte non mi sono mai sentita sola nel museo chiuso, il buio mi serviva per resettare me stessa. Essere costantemente osservata era stancante, necessitava di una pausa».
Con la complicità che potrebbero avere gli astronauti dopo aver coabitato nella medesima navicella spaziale, le tre donne parlano di sensazioni e invisibili percezioni. «È un lavoro semplice che si svolge nel tempo reale. Il pubblico è lì a guardare qualcosa che è fatto di niente. La ragione per la quale le persone sostano a lungo è che abbiamo bisogno di fermarci e fare qualcosa che sia la vita stessa», afferma Abramovic, che progettò la performance con l’obiettivo di purificarsi e creare un campo di energia che contagiasse l’ambiente e aumentasse la consapevolezza delle persone.
«La mia percezione della vita è cambiata con questa performance», ha affermato Lyn. «Normalmente ci sentiamo separati gli uni dagli altri, vediamo solo le differenze, ma quando sei lassù ti viene naturale interagire e annullare le gerarchie». Il contatto si produce attraverso lo sguardo senza alcuna verbalizzazione. «Effettivamente, riprende Tiina, «è stato facile percepire come cambiava l’energia nella stanza. Questa pratica mi ha consentito di essere completamente presente a me stessa».
«Dopo vedevo meglio»
Dunque è stata un’esperienza trasformativa con uno stage che è l’anti-Truman-show per eccellenza. «The Ocean view, la vista sull’oceano», osserva Abramovic, «ovviamente non è possibile in una galleria, ma è possibile nella mente delle persone che vengono coinvolte nell’interazione. Le afflizioni e le preoccupazioni del quotidiano in questa dimensione cadono. Si entra in contatto con sé stessi e ci si rende conto che il presente è l’unica realtà che abbiamo». Ancora una volta l’artista dimostra come più che con la retina l’arte si propaghi attraverso uno scambio di energia, attraverso il rapporto tra persone che diventano parte dell’opera in un’interrelazione consapevole che necessita della presenza sensoriale di tutti.
«Quando sono scesa dalla casa», dice Lyn, «mi sono accorta che vedevo meglio. Ho dovuto cambiare la gradazione delle lenti perché avevo riacquistato 1,7 diottrie». Allora è l’epoca della visibilità e del selfie a procurare miopia e cecità? Abramovic, mettendo in scena l’invisibile, rieduca il pubblico alla visione. Sottrae l’immagine, produce silenzio e induce le persone a guardare dentro sé stesse perché «più vai in fondo più diventi universale». Un’opera politica? «No, la politica cambia velocemente. Il mio lavoro è frutto di varie componenti spirituali, disturbanti, estetiche, sociali e anche politiche, ma non solo».