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 2018  dicembre 23 Domenica calendario

La finanziaria dello scontento

La legge di stabilità in corso d’approvazione nella notte al Senato tra molte difficoltà ha realizzato un paradosso di cui 5 stelle, Lega e il governo giallo-verde si mostrano inconsapevoli, ma dovranno presto prendere atto. 
Nata come legge di spesa, con l’obiettivo di scuotere un Paese enomicamente addormentato e tendente di nuovo alla recessione, facendo circolare denaro pubblico, ed anzi mettendolo direttamente nelle mani dei cittadini attraverso il reddito di cittadinanza, le pensioni e sperabilmente gli stipendi dei nuovi assunti che dovrebbero essere chiamati a rimpiazzare chi lascerà il lavoro, invece di creare soddisfazione tra la gente più bisognosa (ciò che si vedrà quando le due misure chiave, non ancora contenute nella manovra, saranno effettivamente realizzate), ha diffuso scontento in un interminabile elenco di categorie sociali, rimaste a bocca asciutta.
Si dirà che questa è ormai da anni la prassi di tutte le leggi di stabilità, almeno da quando le autorità europee hanno imposto a Paesi dissestati come il nostro severe politiche di bilancio. Ma a parte il fatto che stavolta il governo, e soprattutto i due vicepremier che ne costituiscono l’ossatura, avevano sfidato la Commissione europea e sono stati precipitosamente costretti a far marcia indietro, la lista degli insoddisfatti che protestano è così lunga proprio per il modo in cui la legge è stata concepita: dall’alto, senza ascoltare nessuno, tenendo anzi fuori dalla porta sia i parlamentari che poi avrebbero dovuto votarla, sia i rappresentanti delle varie categorie e perfino i lobbisti, che nel modo semiclandestino, tipico del Parlamento italiano, avevano sempre preso parte ai lavori preparatori del testo, suggerendo qui e là qualche emendamento, o accontentandosi di promesse per il futuro.
La legge di stabilità, infatti - ma anche questo gli inesperti dioscuri del governo Di Maio e Salvini lo hanno ignorato, chissà se in buona fede o per distrazione -, rappresentava solo una delle punte di un tridente che serviva per governare l’Italia. Le altre due erano il cosiddetto “decreto milleproroghe”, costruito per procrastinare le tante e tante soluzioni provvisorie che venivano approntate per i problemi emersi nel corso dell’anno (crisi aziendali, cassa integrazione, assunzioni a termine in scadenza, ecc.); e la cosiddetta “legge mancia”, che dotava i parlamentari, quando ancora si presentavano personalmente davanti agli elettori e non come numeri inseriti nelle liste dai capipartito, di un piccolo gruzzoletto da spendere sul territorio per le necessità più urgenti. Era in questo modo, discutibile quanto si vuole, che il complesso reticolato degli interessi della società italiana veniva amministrato. All’epoca della spesa pubblica senza limiti e di un presidente di commissione Bilancio entrato nella storia come Paolo Cirino Pomicino (non a caso, all’inizio, sbilanciatosi a favore del governo giallo-verde), il grosso del lavoro veniva sbrigato appunto nell’esame preventivo dei membri della commissione: erano loro a ricevere le associazioni di categoria, a negoziare con le opposizioni, ad affrontare le lobbies che stazionavano nei corridoi. E a portare in aula un semilavorato, che richiedeva solo qualche piccolo aggiustamento. Il contrario esatto di quanto accaduto stavolta, con il governo, e soprattutto i due vicepremier, convinti di accontentare tutti con il reddito e la quota 100, e sorpresi dalle sollevazioni popolari. Proteste che non si concluderanno certo dopo il varo definitivo della legge di bilancio, e speriamo non siano destinate a degenerare come in Francia, dei diversi pezzi di società civile, accantonati e non ammessi neppure al rito del confronto, tipico di tutti i Parlamenti del mondo.
In prima fila ci sono i pensionati cosiddetti “d’oro”, manager d’impresa, dirigenti pubblici e privati, che hanno lavorato una vita e versato contributi e adesso si sentono dire che cinquemila euro al mese di pensione sono troppi e bisogna tagliarli per aiutare quelli che ne prendono meno. C’è il popolo della partita Iva, imprenditori medi, piccoli e mini o liberi professionisti, anche giovani, che si aspettavano la flat tax e scoprono che non è prevista se uno è titolare o socio di un’impresa. Della serie: abbiamo scherzato. C’è il terzo settore, il mondo del volontariato, che chiedeva facilitazioni che non sono arrivate. C’è, più in generale, la Chiesa, preoccupata degli effetti del “decreto sicurezza”, che stanno mettendo per strada centinaia di immigrati usciti dai centri di assistenza. Ci sono i magistrati, ai quali era stato detto, ma non è stato fatto, che sarebbero potuti restare in servizio fino a 72 anni, anche per compensare il taglio delle pensioni che riguarda gran parte di loro. Ci sono le grandi associazioni tipo Confindustria e Confartigianato, che hanno oscillato tra critiche e consensi, ma adesso si ritengono fregate. Ci sono i costruttori delle Grandi Opere che non possono certo accontentarsi del solo ponte di Genova e vorrebbero una parola definitiva sul Terzo Valico, sulla Pedemontana e sulla Tav. E ancora gli autisti delle società Ncc, noleggio con conducente, esclusi da una norma che favorisce i tassisti e penalizza chi ha una macchina comperata a rate e per pagarla ha bisogno di lavorare. Naturalmente, non è detto che abbiano tutti ragione, né che vadano per forza accontentati. La legge di stabilità non può essere una panacea generale ed è motivo di contrasto ovunque (vedi l’America di Trump proprio in questi giorni). Ma aspettarsi qualcosa di più da una “manovra del popolo” che doveva “abolire la povertà”, questo sì, era lecito.