Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2018
Il calcio italiano e la grande guerra
Finalmente tornò Natale, senza trincee né cannoni. Era il dicembre 1918, cent’anni fa. La Grande guerra era finita da poco. Lo sport, ancora una volta, fu carburante per riaccendere la vita tanto che già nel 1919 si vedeva un accenno di campionato di calcio e si correva il Giro d’Italia.
Il Natale del 1918 fu pace e non più solo il fuoco di paglia della tregua del Natale 1914, quando, a Ypres (Belgio) i soldati tedeschi intonarono Stille Nacht, Heilige Nacht accendendo candele lungo le trincee, seguiti dai militari britannici con i quali poi giocarono a pallone, fino a far scrivere ai giornali d’Oltremanica «fu una delle più grandi sorprese di una guerra sorprendente».
Sul campo – come ricorda anche lo spettacolo Palle girate e altre storie di Michele D’Andrea (www.micheledandrea.it) – erano rimasti 17 milioni di morti; solo in Italia 650mila, un milione i feriti, 430mila i mutilati e di 100 che partirono 13 non tornarono. Lo sport non fu indenne alla carneficina: il solo calcio immolò 258 atleti. La Juventus perse il suo secondo presidente, Enrico Canfari; l’Internazionale 26 soci; il Milan pianse 12 fra atleti e dirigenti; Udinese ed Hellas furono dimezzate; fu ucciso James R. Spensley, promotore del calcio a Genova.
Di tutti quei calciatori, oggi, non restano che tracce nei nomi di alcuni stadi italiani: pochi nomi, carichi di storie e dello spirito eroico che permeava il football prima maniera. In Italia, dopo il conflitto inizia un periodo di fermento: per dare slancio all’economia si inizia a costruire. Nuove strade, linee ferrate e anche tanti impianti sportivi, soprattutto in concomitanza con la svolta fascistissima del governo che puntava a plasmare una razza italiana forte e indomita. Erano già 2.450 nel 1930 e la Fifa accettò la candidatura dell’Italia ad ospitare il Mondiale del 1934 perché il Paese disponeva di impianti nuovi e moderni. Per quale motivo, allora, oggi sono meno di dieci gli impianti che ricordano i caduti della Grande guerra? «Se nel primo dopoguerra alcuni stadi furono dedicati alla memoria dei caduti, il regime cercò invece di imporre un’impopolare spersonalizzazione, scegliendo denominazioni quali “del Littorio” o “Littoriale”», così scrive Fabio Caffarena, docente di Storia contemporanea a Genova nella prefazione al volume La Grande Guerra nel pallone. Ciccione, Ferraris, Picco: gli stadi di calcio della Liguria (edizioni Lo Sprint).
Il libro, ricco di documenti e scritto con acume dallo storico di Imperia, Enzo Ferrari, è prezioso per ricostruire come la memoria, proprio a causa del Fascismo, impallidisca quasi subito. Il primo calciatore italiano caduto è ricordato dal “Genova 1893” (non ci si poteva certo chiamare Genoa!): nel 1933 la società rossoblù, proprietaria del Campo di Via del Piano, decide, per i 40 anni di storia, di dedicare l’impianto a Luigi Ferraris, morto il 23 agosto 1915 a Monte Maggio, in Trentino. Alto, di bel portamento, una barba sempre curata, centromediano poderoso e tenace (immaginiamo un De Rossi di altri tempi), capitano del Genoa, in campo dal 1904 al 1911, aveva appeso gli scarpini al chiodo per entrare alle Officine Elettriche Genovesi e poi agli Stabilimenti Pirelli di Milano. Può evitare la guerra grazie al lavoro ma sceglie il fronte: è un interventista convinto e muore colpito da una granata. Il Genoa gli intitola lo stadio: è il 1° gennaio 1933. Ventimila persone, una lapide per il capitano, un opuscolo con la storia del club, un’amichevole con gli Young Boys e senza dover pagare il biglietto, il pallone che arriva su un idrovolante. Una festa immensa che costa denari e sacrifici alla società ma ci sono più leggende che riscontri sui giornali dell’epoca riguardo all’interramento della medaglia d’argento al valore assegnata a Ferraris nell’area di rigore sotto la gradinata Nord. Però, nonostante le lacune documentali, le nipoti di Luigi Ferraris, Paola e Laura, due eleganti e lucide signore di 90 e 80 anni, ricordano ancor oggi che in famiglia si parlava spesso di quella cerimonia di interramento come di un legame eterno fra il capitano (loro zio, ndr), la società e i tifosi. Chissà…
Altri due stadi liguri ricordano eroi della Prima guerra. Alberto Picco (1894-1915) è stato tra i fondatori dello Spezia, primo capitano e autore del primo gol del club: «Uno sorta di eroe mitizzato in città al quale lo stadio viene intitolato nel 1919 – ricorda Enzo Ferrari -. Il Fascismo, proprio per la forza simbolica del giocatore, non osa scalzare il suo nome e sostituirlo con il consueto “del Littorio”». Meno nota, invece, la figura di Nino Ciccione (1893-1918), nato ad Oneglia, portiere che sceglie la prima linea per “vendicare il cugino” e al quale lo stadio di Imperia è intitolato nel 1959. Il libro di Ferrari ridà voce a questo fante “animo esuberante e generoso” e convinto interventista: «Ritengo che da questa guerra i popoli se ne avvantaggeranno. Come Mussolini, credo che dopo la guerra il mondo camminerà meglio».
Gli altri impianti in memoria di caduti della Grande guerra sono il Forlano di Stresa, lo Zini di Cremona (ma “polisportivo Farinacci” in epoca fascista), l’Appiani di Padova, lo Zugni Tauro di Feltre e il Virgilio Fossati di Milano (oggi Campo di Via Goldoni), che fu casa dell’Inter dal 1913 al 1930.
Insomma, lacerti di storia. Nuda nomina tenemus ma in quegli stadi sono custoditi frammenti preziosi di un calcio che fu, tutto in bianco e nero, pieno di ardimento e con vista sulla tempesta della Grande guerra.