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 2018  dicembre 23 Domenica calendario

La gallina geniale

La selezione di tratti considerati desiderabili dall’uomo – dall’inclinazione a essere giocherelloni in certe razze di cani alla maggiore produzione di latte nelle vacche – solleva una preoccupazione crescente circa il benessere di questi animali. Il caso dei polli selezionati per il consumo della loro carne (noti come broiler) ne è un esempio. Dal 1957 ad oggi il peso di questi animali si è quadruplicato: passando, a cinquantasei giorni di vita, da novecento grammi a quattromiladuecento grammi. Le conseguenze sono orribili sia per il corpo (soffrono cuore, polmoni e zampe che debbono sostenere il maggior peso), sia per il comportamento (gli animali passano la gran parte del tempo seduti o stesi con le zampe in posizioni innaturali). Oggi un broiler è pronto per il consumo a trentacinque giorni, quando pesa quasi due chili (da confrontarsi con il peso tra i cinquecento e i mille grammi degli adulti della specie originaria, il pollo rosso della giungla, prima della domesticazione). Si guarda perciò con interesse alle razze ad accrescimento più lento, ma ovviamente la durata del periodo di allevamento e la velocità di crescita sono fattori che incidono sul prezzo di vendita.
Meno noti sono gli effetti sul cervello e sulle capacità mentali degli animali che sono oggetto di questi processi di selezione artificiale. La questione è di un certo rilievo perché molte persone ritengono, sbagliando a mio modo di vedere, che vi sia una relazione tra elevate capacità mentali e possibilità di soffrire. 
Si sa, ad esempio, che le galline bianche livornesi, che sono state oggetto di una forte selezione artificiale, sono meno brillanti nei compiti di orientamento nello spazio rispetto ai polli rossi della giungla. Tuttavia non è chiaro se la differenza sia da imputare ai processi di domesticazione della specie in generale o alla selezione di tratti specifici. Tra i suoi molti effetti la domesticazione determina una diminuzione delle dimensioni del cervello – secondo alcuni antropologi ciò varrebbe anche per la nostra specie, come risultato di un processo di auto-domesticazione – ma le relazioni tra grandezza complessiva del cervello e capacità mentali sono assai poco chiare.
Le galline ovaiole sono state oggetto di una selezione genetica altrettanto importante di quella esercitata sugli animali da carne. La produzione media era pari a circa centocinquanta uova all’anno nel 1940, mentre oggi si aggira sulle trecento uova all’anno nelle linee ad alta produttività (anche in questo caso il confronto con l’antenato, il pollo rosso della giungla, che produceva dalle quattro alle otto uova all’anno è sbalorditivo). Considerati gli elevati costi associati al metabolismo cerebrale ci si potrebbe aspettare un trade-off energetico: il maggior investimento da parte dell’organismo nella produzione di uova potrebbe tradursi in un minore investimento nel metabolismo cerebrale. In parole semplici, l’intensa pressione a produrre più uova potrebbe andare a scapito delle capacità intellettive degli animali.
Uno studio recente ha affrontato il problema. Sono state confrontate due linee ad alta produzione (circa trecento uova all’anno), con altre due a moderata produzione (circa duecento uova all’anno). Gli animali dovevano imparare a discriminare due barrette sulla base del loro colore, ignorandone l’orientamento, verticale o orizzontale, scegliendo di beccare su un touch screen quello tra i due stimoli arbitrariamente designato dagli sperimentatori come corretto (quello rosso per metà degli animali e quello verde per l’altra metà). Le galline dovevano poi svolgere un test di apprendimento inverso: se, ad esempio, fin lì la barretta rossa era stato lo stimolo corretto e la barretta verde quello sbagliato, le contingenze venivano rovesciate per cui la barretta verde adesso era lo stimolo corretto e la rossa quello sbagliato. Infine, si misurava la cosiddetta «estinzione», cioè dopo quante prove l’animale smetteva di beccare agli stimoli una volta che la risposta non fosse più associata al premio, che era costituito da un po’ di becchime.
I risultati sono stati sorprendenti: le galline ad alta produzione di uova apprendevano prima il compito ed erano più veloci ad adattarsi quando le contingenze per l’ottenimento della ricompensa venivano rovesciate, mostrando perciò flessibilità nell’apprendimento. La velocità di estinzione delle risposte era invece simile nelle diverse linee.
Non è chiaro a che cosa esattamente siano imputabili queste differenze. Il cibo era sempre disponibile e gli animali non venivano affamati per motivarli al compito, per cui non si può argomentare che le galline delle linee più produttive fossero maggiormente affamate o voraci. Sappiamo che la capacità di reagire allo stress o di interagire con gli esseri umani, tratti che sono stati selezionati nel processo di domesticazione, possono influenzare l’apprendimento. Ma non si capisce in virtù di quali processi la selezione sulla produzione di uova possa avere influenzato, se l’ha fatto, questi aspetti del comportamento. Sembra comunque che come risultato della maggiore richiesta energetica in queste galline sia stato selezionato un qualche meccanismo nel sistema nervoso che consente loro modi più efficienti di procurarsi il cibo. Forse i loro cervelli sono più asimmetrici, forse alcune aree sono andate incontro a un’espansione a scapito di altre… Non lo sappiamo e saranno necessari studi specifici per capirlo.
Intanto, però, vale la pena sottolineare come tutto ciò confligga con alcune credenze diffuse sul piano del senso comune. Si paventa spesso che l’esito secondario dei processi di selezione genetica debba essere necessariamente negativo, anche quando i tratti desiderati magari sono riconosciuti come utili (vedi le ansie e le polemiche suscitate dagli Ogm), dimenticando che l’indole affettuosa dei nostri amati golden retriever così come le loro orecchie flosce, o la coda arricciata dei maiali, sono caratteristiche che riflettono appunto l’esito di questi processi.