il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2018
Intervista a Giovanni Veronesi
Ad Aramis ruba l’attitudine al ragionamento, non la dedizione alla Chiesa; ad Athos le sfumature intellettuali, mascherato da leggerezza; a Porthos il piacere del vino, un tempo eccessivo, oggi moderato; a D’Artagnan il resto: l’atteggiamento un po’ guascone, l’intraprendenza, l’irritazione se avverte odore d’ingiustizia, e la salvaguardia dell’animo fanciullesco, lo stesso che ha portato Giovanni Veronesi, regista di 56 anni, a confrontarsi con il libro dell’infanzia: I tre moschettieri, diventato I moschettieri del re, dal 27 dicembre al cinema.
Romanzo di formazione.
Non un testo semplice per uno di 12 anni, in particolare per le sfumature politiche.
Cosa l’affascinava?
A quel tempo prendevo la scia di mio fratello maggiore (Sandro, lo scrittore), e i suggerimenti di papà: grazie a loro, agli strumenti che mi hanno donato, capivo ciò che leggevo.
In Italia sono molti anni che non si gira un film del genere in costume.
Più o meno da Non ci resta che piangere.
Anno 1984.
Per affrontare un’avventura del genere, bisogna essere un po’ pazzi, dal regista al produttore.
E Vittorio Cecchi Gori la definisce “un po’ pazzo”.
(Ride) Parla lui? Con me ha realizzato dei bei successi, non si può lamentare.
Cecchi Gori.
Come tutti i produttori cinematografici ha un lato di incoscienza e di infantilismo: una persona “sana” di testa oggi non investe nel cinema, è quasi sempre a rimessa.
Incoscienza e infantilismo.
I produttori sono dei bambini cresciuti, non sono calati nella realtà a tal punto da sapere come districarsi: vivono dentro un cartone animato, e ognuno ha il suo sfogatoio, il suo giocattolo da adulto: per Aurelio De Laurentiis è il pallone.
Li conosce oltre il lavoro.
Sono stato varie volte in vacanza con De Lurentiis o Cecchi Gori ed era come vivere dentro quel cartone, con la presunta realtà colorata dalle loro bizzarrie.
Un esempio.
Un giorno, su una barca, ho visto Vittorio prendere in pieno, con il mignolo del piede, una vite mal posizionata: una botta micidiale, al posto suo avrei urlato da folle.
E invece?
Lui niente, neanche si è toccato il piede, ha proseguito tranquillo mentre il mignolo cresceva.
Una scena alla Fantozzi.
No, il ragionier Ugo avrebbe gridato in disparte, mentre Vittorio prese in mano un bicchiere di champagne.
Spesso paragona il mondo del cinema ai cartoon.
Infatti ho amato e amo un film come Roger Rabbit, perché rappresenta alla perfezione Hollywood: i cartoni sono delle reali maschere hollywoodiane; Jessica Rabbit è l’essenza della diva e il coniglio è il perfetto sceneggiatore vigliacco.
Secondo Verdone, “con Sorrentino, Lucchetti, Virzì e Veronesi, raccontiamo il passato per ritrovare una carezza, e farci curare dalla memoria”.
Intanto lo ringrazio per la cinquina nella quale mi ha inserito, ma in realtà non guardo quasi mai al passato, lo affronto solo se ci sono dei collegamenti con il presente, altrimenti non mi stimola.
In questo film non c’è Abatantuono: tempo fa si è lamentato perché non vi vedete quasi più.
Anche a me manca tanto, però il nostro è un mestiere così (ci pensa). Secondo lui è colpa mia, e forse ha ragione…
Però…
Lavorare con lui è stato uno dei periodi migliori della mia vita, perché è un attore di pancia, uno che improvvisa, e ne I moschettieri del re sarebbe stato un bel Porthos e me lo ha detto.
Il cinema è centrale nella sua vita.
Le stagioni le inquadro e le sviluppo a seconda del film che ho girato, quelli sono i miei veri punti cardine, altrimenti non sono in grado di collegare nulla; amo il mio mestiere, amo definirmi un uomo da “cestino del pranzo”, amo la precarietà, amo la roulotte sul set, amo arrivare la mattina e scoprire cosa ha combinato lo scenografo.
Condividere.
Tantissimo e non sono un solitario, non avrei mai potuto affrontare una carriera come quella di mio fratello, chiuso in una stanza a scrivere; ho la necessità di confrontarmi sulla quotidianità.
La sua casa ha un salotto molto frequentato.
Metto insieme le persone che mi piacciono, magari distanti tra loro, non importa, proseguo, e lo stesso accade con la mia trasmissione radiofonica: l’altro giorno ho abbinato Nanni Moretti a Raffaella Carrà.
Qual è il ruolo di Moretti nel cinema italiano?
Il faro.
Non poco.
Ha aperto le porte a un tipo di comicità molto nevrile ed efficace: da anni esprime quello che le persone pensano, ma non hanno il coraggio di esporre; prima di lui i comici si sono sempre basati sul processo di causa ed effetto, mentre nei suoi film è lui a generare le situazioni ed è sempre lui a commentarle, come nella scena de La messa è finita quando urla “palla”.
Siete amici?
Non siamo in estrema confidenza, ma ci vediamo e abitiamo vicini.
Uomo complicato.
È Nanni Moretti.
Suo fratello ha dichiarato: “Visto il governo attuale, rimpiango Berlusconi”.
Premesso: siamo tutti e due dei rompicoglioni di natura, e per tradizioni famigliari, quindi amiamo tutto ciò che può creare un dibattito; detto questo non trovo la sua provocazione stupida, e la situazione è complicata.
I gialloverdi ci sono anche per i vent’anni di berlusconismo.
Berlusconi non ha mai avuto opposizione: erano di destra pure quelli di sinistra; l’unico suo nemico era lui stesso e la debolezza per le donne.
Lo ha conosciuto?
No, ci siamo incontrati una sola volta e mi ha scambiato per il maître.
Quando?
Al compleanno di Vittorio Cecchi Gori mi piazzo all’entrata del locale, in attesa di Marco Risi; all’improvviso vedo dei flash e dietro quei lampi proprio Berlusconi avvicinarsi a me.
Lei?
Da buon provinciale resto impietrito, in soggezione: mi guarda e mi rivolge un sorriso accompagnato dal classico “buonasera”. Ricambio. E dentro di me penso: “Spero abbia visto uno dei miei film”. Macché. Immediatamente aggiunge: “Qual è la sala del ristorante?”.
Sprofondato.
Immediatamente mi sono trasformato in un maître, ho allargato la pianta dei piedi, e l’ho accompagnato per qualche passo e rimediato un “ben gentile”.
Non si è presentato?
Per carità! Comunque, quando vesto bene, le persone mi scambiano per un cameriere, un portiere, uno di servizio. Sì, sto meglio con gli amici.
Emma Marrone narra di cene da lei durante le quali con Verdone affronta delle discussioni sui farmaci.
Se ne intendono, sono due farmacie ambulanti, sarebbero degli sponsor incredibili: trasmettono la passione, e indirettamente ti invogliano a provarli.
Sanno tutto.
Una sera Carlo mi ha parlato di un antibiotico, il giorno dopo volevo andare in farmacia.
“Che bella vita che fo’”, frase sua.
Sono una delle persone più fortunate che conosca e di fortunate ne ho viste poche.
Fortunato, da quando?
Ho scritto il primo film a 23 anni, Tutta colpa del paradiso, ed è stato un successo: da allora sono entrato in serie A, e mai più uscito, senza gavetta e senza infortuni.
Non è scaramantico.
Per niente, mi è capitato solo una volta e la scena l’ho inserita in un film: Lungotevere, passa un gatto nero, una tizia in motorino davanti a me inchioda, e inizia ad assumere atteggiamenti vaghi, come grattarsi la caviglia.
Eh, no…
L’affianco: “Posso anche passare, ma la sfiga toccava a lei”. Scoppia a ridere, cerca complicità: “Aspettiamo il terzo”, insiste. A quel punto passa un anziano in bicicletta: “È una serial killer!”.
Chi parla con lei, teme poi di ritrovarsi in un film?
Quando ascolto non ci penso: gli episodi mi restano dentro ed escono nei modi e nei tempi più improbabili e misteriosi, come ne I moschettieri del re, dove c’è molto di me.
E dei suoi amici.
Persone con le quali riesco a condividere il cestino del pranzo: per me è il parametro; non sono un leopardiano, piuttosto un epicureo, mi piace godere, e poi sono un regista solo perché è il mestiere più bello del mondo, non per un fuoco sacro, per questo cerco di raccontare in chiave ironica pure gli episodi drammatici.
Quanto è presente la scaramanzia nel suo mondo?
Ho visto colleghi spargere il sale intorno al palcoscenico e un altro raccogliere per strada delle manine monche di bambole e tenerle con sé.
Sempre appresso?
Sempre! Ha le tasche piene, e alcune hanno all’interno un’anima di ferro, quando passa al metal detector suona ed è costretto a estrarle, con i presenti che ogni volta sbarrano gli occhi.
La pressano per i ruoli?
Ci sono attori che se non li prendo mi domandano il perché….
Chi?
Uno di loro è Haber: “Ale, non ho una parte, quella che dici è per una donna di 72 anni!”. E lui: “A me va bene”. Farebbe di tutto, è il mio fratello maggiore con un atteggiamento da fratello minore.
Passiamo ai protagonisti del film: Rocco Papaleo.
È il capostipite di una razza, i papalei, che esistono solo a papaleia e il loro obiettivo è conservare la specie.
Un mondo solo suo.
Un microcosmo straordinario, solo accanto a lui puoi avvicinarti e renderti conto.
Valerio Mastandrea.
In apparenza triste, cupo, con una visione della vita pessimistica, ma quando si trova con gli amici estrae un senso ludico clamoroso, con dei tempi comici assoluti.
Pierfrancesco Favino.
Un professore di recitazione, uno di quelli che abbinano talento ad applicazione.
Sergio Rubini.
Una sorta di Pinocchio invecchiato: è dinoccolato, se uno lo spoglia trova le ossa spuntare; lui è perfetto di profilo, mai frontale. Ma è uno dei più grandi in Italia.
La Golino lo definisce “pericoloso”…
Nella sua testa trama, ma non mette in atto.
Chi è un talento sottovalutato?
Massimo Ceccherini e basta entrare in casa sua, sbirciare nella sua videoteca, per capirlo: si scoprono dei titoli importanti, dei cult, dei film sconosciuti alla maggior parte dei registi italiani. Lui è un poeta. È un catalizzatore del dolore altrui, la sofferenza la avverte da lontano e in parte la rende sua, anche a costo di distruggersi.
Rispetto a Monica Bellucci ha parlato di “situazioni assurde”…
È la numero uno in assoluto: se apre una scuola di marketing, mi iscrivo per primo; come lei, non ho mai visto nessuno districarsi nelle situazioni più complicate, e venirne fuori come un fiore appena sbocciato.
Vacanze insieme.
Una volta mi invita sul panfilo di uno sceicco, attraccato in Sardegna per omaggiarla con una festa: trecento ospiti, tra loro James Brown, ingaggiato con 100 mila euro. Monica unica donna a non togliersi i tacchi.
Non li toglie mai.
Lo sceicco a metà serata la porta nella sua stanza per mostrarle un video di lui che nuota con gli squali, e lei, genio, lo smonta: “Sono un’attrice, lavoro nel cinema, so come si realizzano i fotomontaggi”. La gente non lo sa, ma è divertentissima.
Veronesi, a lei la riconoscono in giro?
Ultimamente sì e per via della radio: collegano la voce.
Soddisfazione.
Veramente mi girano un po’ le palle, mi occupo di cinema da trent’anni, mi piacerebbe venir associato ai film.
Qual è il suo grado di ego?
Non sono narcisista, però credo in me, e parecchio, soprattutto sul terreno del divertimento, della comicità; per il resto mi lascio cullare dall’ego degli altri, che è enorme.
Quali sono le sue basi per la commedia?
La grande guerra: è il film con uno dei finali più belli della storia; il mio Fellini è Monicelli.
Eravate amici?
Per anni è stato fondamentale, mi dispensava dei consigli straordinari sul cinema, fino ad arrivare a una sorta di decalogo del bravo regista.
Enunciamolo.
Prima regola: non portare l’ombrello, il regista si deve bagnare e avvertire il tempo sulla pelle; secondo: mangiare poco, per mantenere un certo nervosismo; terzo: si salgono le scale due a due, per dimostrare più dinamicità degli altri; quarto: mai l’impermeabile, è da cittadino, da chi prevede, il regista si deve immergere; sesto: russare, la gente deve avvertire la tua presenza, anche quando non avverti la loro.
Maestro di vita.
Gli ultimi tempi lo accompagnavo ai festival, e ogni tanto sentenziava: “Non sei male, ma a te preferisco Virzì”.
Provocazione o verità.
La seconda e sono d’accordo; lo diceva perché aveva capito il mio spirito, sapeva che non me la sarei presa, era una forma di rispetto e confidenza.
Lui a volte feroce.
Durante le riprese di un film, un attore definito da lui “cane” non riusciva a infilare due battute, allora chiese al fonico di legare un osso al microfono, “almeno avrebbe tenuto la testa alta”.
Altra lezione…
A un’attrice ho piazzato una scatoletta per cani nel suo cestino del pranzo.
L’ha stupita la decisione finale di Monicelli?
No, però ci ho sperato, non volevo morisse come mio nonno, per lui desideravo una fine da eroe e quando è successo, dentro di me, ho urlato un alè che in qualche modo gli ha reso omaggio.
(E “muoiono solo gli stronzi”, parola di Monicelli)