Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 23 Domenica calendario

Contro Gianluigi Paragone

Il giornalista più apertamente lottizzato d’Italia (l’ha pure ammesso) tuona contro la casta dei giornalisti. Il giornalista notoriamente ingrassato coi contributi pubblici (dalla Padania alla Rai alla poltrona da parlamentare: tutto per sostanziale nomina, altro che «lettori» ed «elettori») tuona contro i fondi all’editoria, il cui taglio «lo chiedono i cittadini»: più una serie di spaventose e superficiali cazzate che tornano utili solo a chi, durante le feste, volesse tenersi leggero: gli basterebbe sbirciare, prima di ogni portata, che cos’ha detto e scritto Gianluigi Paragone il 17 dicembre scorso. Dopodiché, ora, dovremmo passare al merito tralasciando il pulpito: ma è veramente dura dimenticare il pulpito. «Lo dicevo prima e posso ribadirlo adesso: i giornalisti italiani sono una casta», parole sue. E quando lo diceva, Paragone? Forse la prima volta che sentimmo parlare di lui: quand’era direttore della Padania, da immaginarsi con quale indipendenza (e con quali meriti fosse stato insediato) in un periodo in cui i giornali di partito non vivevano «anche» grazie ai fondi per l’editoria, ma solo ed esclusivamente grazie a essi. Poi che ha fatto, l’uomo che «lo diceva prima»? Dopo il periodo probabilmente più libero della sua vita (a Libero, appunto, quotidiano che già percepiva gli orribili fondi) il lottizzato Paragone, coi piedi in due caste, approdava dal niente alla vicedirezione di Raiuno e alla conduzione di sbracatissimi programmi tipo «Malpensa, Italia» (poteva chiamarlo direttamente «Gemonio, Italia», a quel punto) e inaugurava quella che a parere dello scrivente è la serie di talkshow più brutti, squallidi, volgari e arruffapopolo che avevamo mai visto. Poi, passando d’un tratto alla direzione di Raidue per logiche sicuramente molto professionali, e soprattutto annusata l’aria che tirava, cercò di ri-verginarsi annunciando «mi dimetto da giornalista di centrodestra» e intensificando la caciara di puntate titolate, per esempio, «Politici, ora basta!». Si mise l’orecchino e cominciò a introdurre le puntate suonando la chitarra. Una sera, in diretta, meritò il commento del compianto Giorgio Straquadanio: «Paragone si sta già preparando il futuro». E tu prova a smentirlo. Paragone ci provò: «La Rai non è della politica», rispose. No, infatti: la Rai è dei partiti. Intervistato dal Corriere, disse: «La mia è una trasmissione di rottura disordinata, io non ho le idee chiare, non è populismo, forse è anarchia, è il disordine che viene dal fatto che non riesco più a trovare un senso o un ordine a quello che sto vivendo». E siamo perfettamente d’accordo con lui. Ma adesso andiamo veloci, sennò si fa noiosa: d’un tratto diventò amicissimo di Urbano Cairo e Diego Della Valle ed ecco «La gabbia» su La7, l’antisistema come estetica, l’antieuro come missione, le teorie del complotto come fondali. Diventò l’idolo dei deficienti no vax. Sinché venne cancellato dal nuovo direttore di rete. Rimasto a spasso, dopo aver usato la politica per fare il giornalista, usò il giornalismo per fare il politico: a fine settembre 2017 condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier e se lo portò dietro nella presentazione del suo sobrio libro «Gang Bank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita». Candidato nel listino. Eletto. A quel punto mancava solo un suo blog sul Fatto Quotidiano. Fatto.

IL CASO RAI
E finalmente, ora, possiamo occuparci delle scemenze che ha scritto contro il mondo che ha partorito lui. Paragone dixit: «Noi del MoVimento 5 Stelle avremmo cominciato una sorta di regolamento di conti per seguire i desiderata sia del vicepremier Luigi Di Maio sia del sottosegretario Vito Crimi». Sì. Esattamente. «L’accusa che ci muovono è quella di soffocare il pluralismo dell’informazione e di colpire il diritto dei cittadini ad essere informati». Esatto, sì. «Che il taglio dei fondi per l’editoria ci sia, è vero. Che sia richiesto dagli stessi cittadini è altrettanto vero. E che i cittadini e i lettori stiano abbandonando il sistema dell’editoria tradizionale è fuori dubbio». Paragone ci sta ricordando che i lettori dei giornali di carta calano in tutto il mondo, ma ecco che cosa sta facendo il governo secondo lui: «Nient’altro che un riordino di un comparto che parte da un dato di fatto? se i lettori non ne vogliono più sapere di un giornale, non è concepibile che indirettamente tutti gli italiani debbano concorrere a tenere in vita dei giornali che in edicola non funzionano più». Fine. L’analisi di Paragone è tutta qui. Dopodiché possiamo spiegargli un paio di cose, oltre a quelle che ha già spiegato la direzione di questo giornale a proposito dei soldi statali che se ne andranno comunque in sussidi di disoccupazione (per i giornalisti licenziati, giocoforza) e soprattutto dei soldi che continuano ad andare al pozzo senza fondo chiamasi Rai, quella che serve a far suonare la chitarra a Paragone. Allora. 1) Il liberismo e il «mercato», da soli, non assicurano la sopravvivenza neppure a case editrici, cinema, teatri, opere liriche, musei, mostre e monumenti. Se dovessero campare solo di prodotti e biglietti, chiuderebbero domani. Che facciamo, tagliamo tutto anche lì, data la caratura culturale de «i cittadini» di cui parla Paragone? Gente che probabilmente della cultura ha sempre fatto a meno, e che i giornali non li comprava neanche prima? Senza contare che l’informazione rientra tra i diritti costituzionali garantiti dallo Stato, non è un’elemosina. Non a caso i contributi per l’editoria diretti o indiretti esistono anche all’estero, e segnatamente nella gran parte dei paesi europei. 2) Se anche fosse vero – come dice l’orecchiante Paragone – che «i cittadini e i lettori stanno abbandonando il sistema dell’editoria tradizionale», è sicuramente vero che i soldi per l’editoria digitale vengono proprio e ancora dalle copie cartacee. L’85 per cento dei ricavi viene ancora dalle carta, per essere precisi: ogni giorno si vendono 2,8 milioni di giornali tradizionali che hanno 16,2 milioni di lettori. Si vede che è gente poco d’avanguardia. L’Agcom comunque informa che il 98 per cento dei giornali online, in Italia, fattura meno di 21mila euro all’anno.

MERCATO POLITICO
 3) La pretestuosità dei tagli all’editoria non si evince solo dai commenti all’intervento di Paragone («devono morire di fame», «i giornalisti mentecatti andranno a zappare la terra o a servire i loro padroni come camerieri») ma anche dalla recente falsità pronunciata da sottosegretario Vito Crimi, che ha definito l’editoria come «il settore più assistito da parte dello Stato». Crimi ha parlato vagamente di una spesa di 3,5 miliardi di euro in 15 anni, cifra che non si sa dove abbia preso. Bene: solamente i sussidi elargiti alle fonti energetiche ritenute dannose per l’ambiente (tipo gas, carbone, petrolio, ecoballe) ammontano a 11,5 miliardi all’anno: dati del Ministero per l’Ambiente. Nel programma dei grillini, tra l’altro, c’è l’abrogazione di questi sussidi, e invece non c’è quella dei fondi per l’editoria. Le innumerevoli interviste e interventi dei mesi scorsi da parte di esponenti leghisti, secondo i quali non ci sarebbe stato nessun taglio, fa capire, infine, come la questione sia stata oggetto di un mero mercato politico. In lingua italiana, quello di Matteo Salvini si chiama voltafaccia. 4) Ultimo ma non ultimo: nei fatti, a guardar bene, il taglio voluto dall’emendamento dei grillini non abolisce i fondi per l’editoria, ma ne vieta l’accesso a circa una ventina di testate diversissime tra loro (l’Avvenire, il manifesto, Libero tra queste) che non sono mai state tenere coi grillini medesimi. Un caso, certo. Così come non è un caso che i 180 milioni che resterebbero (intatti) saranno invece da destinare a un fondo a totale disposizione della presidenza del consiglio per progetti di «soggetti pubblici e privati» i quali promuovano genericamente la «cultura della libera informazione plurale, della comunicazione partecipata e dal basso, dell’innovazione digitale e sociale, dell’uso dei media». In lingua italiana: i grillini potranno dare quei soldi, cioè i fondi per l’editoria, ai loro amici.