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 2018  dicembre 22 Sabato calendario

Intervista a Sandrone Dazieri, quasi complottista

Passato, almeno per ora, il tempo dell’amatissimo Gorilla, i nuovi eroi di Sandrone Dazieri sono Colomba e Dante, i protagonisti della trilogia iniziata con Uccidi il Padre, proseguita con L’angelo e che ora termina (forse) con Il Re di denari (Mondadori, pagg. 504, euro 19,50). Colomba è una superpoliziotta dagli occhi verdi e un carattere molto sui generis, il suo collaboratore Dante è una specie di genio, che il terribile Padre, un maniaco e killer pedofilo, ha tenuto rinchiuso in un silo per quindici anni. Il Padre è morto, ma Colomba è rimasta ferita in un attentato dell’Isis a Venezia, e Dante è stato rapito. Colomba è in congedo, nascosta in campagna, ed è lì che il Male torna a bussare alla sua porta: Tommy, un ragazzo gravemente autistico, si rifugia da lei, dopo che la sua famiglia è stata sterminata. Da chi? Da quello che sembra un erede del Padre, il Re di denari. E così ricomincia la caccia... Fra i colpi di scena e l’ironia a cui Dazieri, che è anche sceneggiatore (Squadra Antimafia, Intelligence, R.I.S. Roma) ha abituato il suo pubblico. Motto del nuovo thriller: non credere a niente.
Un bell’inno alla diffidenza?
«Eh, abbastanza. Non fidiamoci di nessuno, soprattutto di Babbo Natale, visto il periodo...».
Questo non poter credere a niente, però, è angosciante.
«Per i protagonisti sì, per i lettori però è divertente. Il fatto è che il mondo lo vedo così: corrotto, sporco, che ha perso il senso morale. E quindi non mi fido di nessuno che abbia una carica pubblica, o appartenga alle istituzioni».
Perché?
«Credo che chi detiene il potere abbia tutto l’interesse a non dircela giusta, o a piegare la realtà ai suoi interessi. Oggi le chiamano fake news, ma da tempo il mondo è manipolato da chi ha la possibilità di farlo, per i suoi affari. E noi cittadini vediamo le cose passare sopra la nostra testa, senza sapere mai quale sia la verità».
Questa visione, che è anche nel libro, non è un po’ un retaggio del suo passato da anti-sistema, dei tempi delle lotte al Leoncavallo?
«Sì, questa visione è nel libro. Ma esistono due tipi di thriller: il primo, in cui ci sono i cattivi da una parte, e i buoni dall’altra».
Il secondo tipo?
«Quello in cui risolvi il caso, o arresti il colpevole, ma non puoi fare niente per cambiare un mondo che è marcio e fascista. E il sistema è peggiorato dopo la Guerra fredda: è diventato un business di imprese private».
Come quelle di sicurezza, al centro della trama?
«Le guerre private valgono miliardi di dollari. Esiste un esercito fantasma del Pentagono, composto da almeno 700mila soldati, e non si sa che cosa faccia... E le guerre si fanno anche manipolando dati e informazioni, creando false notizie. Certo, speravo in un mondo diverso, quando da giovane lottavo contro il sistema».
È sempre stato così negativo?
«All’inizio scrivevo noir limitati alla situazione locale; poi mi sono reso conto che tutto è connesso. Senza esagerare, eh, non sono paranoico: ma il crimine è globale. Poi conosco tanti agenti che sono delle bravissime persone».
Il complottismo però piace.
«Non sono complottista. Penso che siamo andati sulla Luna, e che l’11 settembre non sia opera della Cia».
Però al pubblico...
«Sì, un po’ di paranoia piace. Però venderei molto, molto di più, se raccontassi di un bravo commissario, amante della buona cucina, che risolve tutti i casi».
Non vende abbastanza? Vende anche all’estero.
«I miei colleghi che sfornano quattro o cinque libri l’anno vendono molto più di me».
Ha letto la polemica dei suoi colleghi su Repubblica, secondo i quali il noir racconterebbe l’Italia meglio della «letteratura» da Premio Strega?
«Ancora? È il marketing di qualche casa editrice... Facciamo un passo indietro. Negli anni ’90 una nuova generazione di scrittori, soprattutto noiristi, ha iniziato a raccontare l’Italia del presente, mentre l’Accademia non lo faceva più. Fu una piccola rivoluzione. In Italia, si intende».
Che tipo di rivoluzione?
«Si iniziarono a usare la ricerca giornalistica, lo sguardo sul mondo, la tecnica narrativa americana, che è quella per scrivere i gialli. Quegli scrittori uscirono dalle cantine, e a un certo punto uscii anche io. I gialli hanno avuto sempre più successo, e tutto questo si è travasato anche nell’ambito della letteratura».
E poi?
«Poi i giallisti di rottura hanno smesso di trovare qualcosa di nuovo: si sono seduti sul successo. È sempre meno vero che il giallo racconti il Paese. Molti raccontano di luoghi fantastici, o del passato, o di paesi slegati dal mondo, in cui quello che conta è la commedia umana. Questo è diventato il giallo. Detto ciò, qualsiasi forma d’arte può raccontare il Paese, e farlo bene. E non tutti i giallisti fanno inchiesta giornalistica».
È così che raccoglie le informazioni?
«C’è un motivo se impiego due anni a scrivere un libro... A ogni riga devo controllare qualcosa. Perché parlo di un presente complesso e folle».
Come quando parla del controllo della mente?
«Direi che lo fanno abbastanza bene. E facilmente, visto che sanno tutto di noi. Parlo anche del reclutamento di autistici nella Silicon Valley, perché sono più abili a non distrarsi nel flusso di informazioni».
E le «cliniche per i diversi»?
«Esistono vari tipi di luoghi. Ci sono prigioni private, per esempio negli Usa, in cui sono molto bravi a spezzare l’individuo e la sua coscienza. E poi c’è quello che è sempre accaduto ai devianti, ai malati psichici».
Cioè?
«Una storia di orrori, da secoli. Fino a pochissimi anni fa potevi finire in ospedale psichiatrico giudiziario per esserti spogliato in strada, e non uscirne più. Vicino a Cremona esistevano manicomi per bambini, luoghi terrificanti. C’era un medico che, per punire i bambini chiassosi, praticava l’elettrochoc sui testicoli».
Come costruisce un thriller?
«Ho affinato la costruzione, libro dopo libro. Prima facevo il cuoco, non vengo dall’Accademia... Tutto si basa su come dosi le informazioni. E mi ha aiutato l’esperienza da sceneggiatore».
Come?
«Pensare in modo visivo, far vedere ciò che accade fa risparmiare parole e aiuta a tenere la tensione alta. Così non sai mai che cosa succederà girata la pagina».
Ci sarà un seguito delle avventure di Colomba e Dante?
«Non so neanche se andrò avanti a scrivere. Forse farò il contadino».