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 2018  dicembre 22 Sabato calendario

Quel Patton d’acciaio che sconfisse Hitler

A metà dicembre del 44 la Germania aveva i nemici alle porte. I sovietici premevano sul fronte orientale, mentre gli angloamericani erano quasi arrivati al Reno, e avevano conquistato Acquisgrana. Tuttavia era ancora militarmente forte, con sette milioni di soldati e una produzione bellica in continuo aumento malgrado i massicci bombardamenti aerei. Tecnologicamente era all’avanguardia su tutto, a parte la ricerca nucleare. Il suo Tigre II pesava quasi il doppio dello Sherman; il suo aereo a reazione volava più veloce di qualsiasi caccia; e infine la nuova V2 incuteva agli avversari un giustificato terrore. Se la Germania si fosse chiusa a riccio, la guerra sarebbe continuata a oltranza, con perdite umane ancora più spaventose. 
LA MENTALITÀMa Hitler non aveva una mentalità difensiva. Concepì un piano simmetrico a quello che gli aveva procurato, nel giugno del 40, una rapida e definitiva vittoria sulla Francia: attraversare con una solida concentrazione di forze la foresta delle Ardenne, puntare su Anversa, conquistare il porto, impedire i rifornimenti e isolare il fronte alleato. Un piano ingegnoso, e teoricamente geniale. Se fosse riuscito, gli angloamericani, pressati da un’opinione pubblica delusa ed esausta, avrebbero fatto la pace. O così almeno pensava il dittatore.
Se quest’ultima prospettiva politica era ingenuamente illusoria, quella militare era, a certe condizioni, praticabile. Ma quando i generali tedeschi chiesero quali fossero le forze disponibili, rimasero sconcertati. I duecentomila uomini e i mille carri destinati all’offensiva erano appena sufficienti ad arrivare alla Mosa. Poi sarebbero stati fermati dalla controffensiva nemica, e soprattutto dalla mancanza di carburante. Il feldmaresciallo Model, nazista convinto ma professionista geniale, osò contraddire il Fuhrer proponendo un’alternativa più limitata. Il responsabile dell’intero fronte,l’ austero e disincantato feldmaresciallo Von Rundstedt, vincitore della campagna del 40, ora osservava con scetticismo le convulsioni del caporale boemo, di cui ormai disprezzava le scelte strategiche: condivise le perplessità di Model e aspettò rassegnato. Com’era prevedibile, Hitler non volle sentire ragioni. 
LE ARMATE Così, all’alba del 16 dicembre, da Monschau a Echternach tre armate naziste investirono una linea di oltre cento chilometri tenuta da cinque divisioni americane, poco addestrate e convinte di riposarsi in un zona tranquilla. Dopo 24 ore, interi reggimenti erano stati travolti e circondati. L’offensiva sembrava procedere secondo i piani. 
Tuttavia, superato il temporaneo sbandamento, gli alleati reagirono bene. Battaglioni, compagnie, persino plotoni rimasti isolati rifiutarono di arrendersi e continuarono a battersi, rallentando l’avanzata del nemico. A Malmédy, le SS di Jochen Peiper massacrarono un centinaio di prigionieri; questo aumentò la determinazione e l’aggressività degli americani. Il tempo era brutto, e impediva la copertura aerea; il generale Patton ordinò al cappellano della III armata di scrivere una preghiera per rasserenare il cielo, e la fece recitare ai soldati. 
Il 22 dicembre il sole splendette, Patton decorò il sacerdote e invitò i suoi – con originale spirito cristiano – «ad ammazzare quei figli di puttana mangiacrauti». Nel frattempo la guarnigione di Bastogne era stata circondata. Il suo comandante, generale McAuliffe, ricevette un’intimazione di resa. Tra gli applausi dei suoi paracadutisti, le gloriose Screaming Eagles della 101ma divisione aviotrasportata, rispose: «Nuts».Parola che in inglese significa noci, che i nostri accorti traduttori degli anni cinquanta tradussero con «sciocchezze» ma che in perfetto slang vuol dire «cazzate». Patton continuò la sua corsa, e il 26 dicembre liberò Bastogne. Nel frattempo, più a nord, Peiper si era ritirato lasciando sul terreno quasi tutti i suoi blindati. 

IL FIUME I pochi tedeschi che raggiunsero la Mosa furono facilmente respinti. Dietro il fiume, Montgomery aveva prudentemente piazzato un intero corpo d’armata, che però non fu necessario. La tenaglia americana si chiuse il 16 gennaio 1945. Le perdite da entrambe le parti erano state numerose. Ma quelle alleate erano rimpiazzabili, quelle tedesche no. Ancora meno lo erano l’equipaggiamento e soprattutto il carburante. Per la Germania era arrivata la fine. 
Perché fallì l’offensiva delle Ardenne? Per le due consuete ragioni di ogni sconfitta: la sproporzione tra mezzi e fini e la sottovalutazione delle forze avversarie. Le stesse cause che hanno determinato la ritirata del nostro Governo davanti al diktat della Commissione Europea. Di Maio e Salvini avevano sognato obiettivi irreali: una crescita esagerata con risorse inesistenti, ed elargizioni assistenziali incompatibili con i vincoli comunitari. Pensavano che l’Europa si sarebbe intimidita, e invece ha resistito e contrattaccato, mentre noi, cantando vittoria, ci siamo ritirati. Ma torniamo alle Ardenne.

L’OFFENSIVA Per l’offensiva Hitler disponeva di 22 divisioni, di cui sette corazzate: una forza di per sé rispettabile, ma inadeguata a raggiungere, e a tenere, il lontano porto di Anversa. Hitler fu ingannato dalla sua megalomania, ma anche dal precedente del giugno del 40 quando una forza quasi equivalente aveva sfondato nello stesso posto arrivando a Dunkerque e tagliando in due le forze alleate.
Ma allora la Wehrmacht aveva davanti un esercito francese demotivato e mal diretto, illuso dalla protezione della linea Maginot e senza adeguati supporti di aerei e mezzi corazzati. Ora invece fronteggiava il soldato americano, confidente nella vittoria, dotato di una straordinaria mobilità, assistito da un’assoluta supremazia dei cieli, e con rifornimenti praticamente inesauribili. Sotto l’energica spinta di generali come Patton e McAuliffe, questo esercito fermò l’avanzata nemica e convertì le temporanee e isolate sconfitte in una definitiva e schiacciante vittoria. Per Hitler, quello fu l’ultimo colpo di coda. 
Tuttavia, vista retrospettivamente, questa sconfitta fu un bene per la Germania. Se la sua resistenza fosse continuata – e senza un tale dispendio di energie sarebbe durata a lungo – gli Usa avrebbero completato la costruzione della bomba atomica, e, ancor prima che a Hiroshima, l’avrebbero sganciata su Berlino, o su Monaco, o su entrambe le città. 
Così il catastrofico azzardo di Hitler salvò l’Europa da un olocausto nucleare dimostrando, ancora un volta, che la Storia va per conto suo. Per questo dobbiamo esser ottimisti. Anche se abbiamo dovuto far retromarcia davanti al diktat europeo, può darsi che lezione ci sia servita. Chissà, nell’alternativa avremmo rischiato di doverci ritrovare Bersani dialogante con Roberta Lombardi.